Nel Loft è l’ora della resa dei conti

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Nel Loft è l’ora della resa dei conti

Nel Loft è l’ora della resa dei conti

29 Aprile 2008

Ieri, nel
tripudio di voci e di battute che nel giorno della vittoria di Gianni Alemanno coloravano
Piazza del Campidoglio, uno striscione recitava una sorta di epigrafe sarcastica
sulla parabola del leader del Pd:  «Veltroni: con le primarie ha fatto cadere il
governo Prodi. Con le elezioni politiche ha cacciato i comunisti dal
Parlamento. Candidando Rutelli ha perso Roma. Walter santo subito!».

L’immagine
è nitida: il Pdl che esulta, mentre il Pd si lecca le ferite, osservando la
fotografia dello «tsunami» elettorale che ha determinato il passaggio del
Campidoglio, per la prima volta da quindici anni, a un esponente del
centrodestra. Una vittoria, quella di Gianni Alemanno ai danni di Francesco
Rutelli, che rappresenta molto più di un semplice cambio di casacca. E’ la
caduta di una roccaforte, l’esproprio democratico di una sorta di proprietà privata
del centrosinistra. Il tutto condito dalla clamorosa sconfessione del “modello
Roma”, un prodotto da esportazione crollato e rifiutato dalla madrepatria stessa.
E uno schiaffo a mano aperta inflitto a Walter Veltroni che infatti,
commentando i risultati, ammette che «quella di Roma è una sconfitta grave,
molto pesante, che io non posso non sentire con particolare acutezza e amarezza
personale e politica».

Per
Veltroni, la situazione richiede una «riflessione seria e approfondita». Anche
se, per il momento, il clima che si respira al loft non è quello da “caccia al
leader” né da processo fratricida. Antonio Di Pietro invoca sì una “opposizione
dura e pura”. Ma le critiche più dure a Veltroni vengono dai partiti esterni al
Pd, dalla sinistra, i cui elettori in gran parte hanno negato il voto a
Rutelli. Tra i partiti dell’ex Arcobaleno la tesi è che Rutelli abbia pagato
«la strategia dissennata del Pd», come osserva la capogruppo uscente del Pdci
Manuela Palermi. E lui, Francesco Rutelli, sfogandosi riservatamente con i suoi collaboratori più fidati dice: “Mi hanno mandato a sbattere in una città
devastata, ridotta allo stremo. Il degrado, la sicurezza… Ho pagato
la domanda molto forte di discontinuità con la gestione precedente,
un’onda che ci ha travolto tutti”.

La
verità è che Rutelli non è riuscito ad attrarre voti nuovi, presumibilmente
nemmeno quelli dell’Udc a cui puntavano i democratici in uno spirito di
collaborazione tra le opposizioni. Può essere che, come dice Massimo Cacciari,
la sua campagna elettorale sia apparsa viziata da un certo continuismo con il
passato, dalla sua veste di ministro del governo Prodi, mentre invece il
candidato alla provincia, Nicola Zingaretti, sia apparso una proposta innovativa.
Ma ciò non toglie nulla alla gravità del rovescio elettorale.

Nei
ragionamenti dei leader del Pd continua ad essere sbandierata, come una sorta
di alibi scaccia-accuse, l’onda lunga del malcontento anti-prodiano.

Ma è
chiaro che la sconfitta di Roma a questo punto rischia di riflettersi sugli
equilibri interni del partito. Non a caso Veltroni si è mosso tempestivamente
con la proposta di confermare i due capigruppo uscenti (Antonello Soro e Anna
Finocchiaro
) che dovrebbero essere approvati con una consultazione della nuova
base parlamentare. Il segretario conta sul fatto che, in un momento di generale
sbandamento, nessuno voglia davvero mettere in discussione la strategia
lanciata prima del voto. La risposta, insomma, è una sola: resistere alle
intemperie, sedimentare il nuovo modello di partito e lavorare in profondità
sui nuovi valori. Ma a questo punto Veltroni deve indicare anche il ruolo dei
gruppi parlamentari nel rapporto con gli alleati radicali e dell’Italia dei
Valori e decidere se riaprire il dialogo con la sinistra radicale o viceversa
cercare una sponda nell’Udc di Casini.

In
ogni caso una cosa è certa: la stagione delle scelte per lo più solitarie di
Walter Veltroni è già finita. Il potere assoluto, figlio delle primarie, è
stato logorato da due mazzate in sequenza.

E bisogna capire ora dove si
orienteranno, ad esempio, le pressioni esercitate da Massimo D’Alema nelle
scorse settimane per sollecitare l’arrivo alla guida del gruppo di Montecitorio
di una figura pesante come Pierluigi Bersani, uomo del Nord e già voce critica
verso alcune scelte del segretario.

O anche quanto la parola collegialità
riprenderà a risuonare nelle riunioni del loft. Non è escluso poi che si torni
a parlare di congresso e di una riscrittura delle gerarchie interne, ma di
certo si esigerà una diversa gestione del partito, in cui sono ancora da
definire dei veri e propri organismi dirigenti, finora scelti personalmente da
Veltroni perchè provvisori. Un malumore fotografato da una frase norbidamente
tagliente pronunciata dal senatore di area dalemiana, Nicola Latorre. «Non mi
piacciono i caminetti, nè il partito liquido».  Una frase che in questa fase non può che
suonare come un messaggio o un avvertimento.