Nel mondo islamico c’è jihad e jihad

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Nel mondo islamico c’è jihad e jihad

18 Agosto 2007

Come ha spiegato Fiamma Nirenstein in una recente intervista a questo giornale, il concetto di jihad è ciò che unifica il mondo mussulmano radicale e l’islamismo politico, militante e violento in una cornice comune che, in ciò, supera le barriere che separano sunniti e sciiti, arabi e non, correligionari dispersi ai quattro angoli del globo in un programma politico che cerca legittimazione nel linguaggio teologico allo scopo di sollecitare la più ampia ed intensa partecipazione emotiva e fattiva all’interno della umma mussulmana.

Il rinvio a questo concetto è in tutta evidenza strumentale, e lo sappiamo bene dopo che la storia moderna ci ha insegnato che nell’età del disincanto (per usare un’espressione cara a Max Weber) il fare leva su motivi religiosi per mobilitare le masse è la quintessenza del secolarismo, è in altre parole una strategia ideologica di un’élite di potere rotta ad ogni astuzia e ben lontana da ossequio e devozione spirituale. Nondimeno, una volta sollecitata la curiosità anche quest’ultima avanza i suoi diritti e, quindi, perché non soffermarsi brevemente sul concetto di jihad nel modesto tentativo di offrire qualche informazione di carattere orientativo, a maggior ragione nel momento in cui esce in Italia la prima monografia completa in argomento (David Cook, Storia della jihad da Maometto ai giorni nostri, a cura di R. Tottoli, Einaudi, 2007; € 19,00 – pp. 279)?

Jihad è una parola araba che letteralmente indica l’«esercizio del massimo sforzo»; dal punto di vista semantico il termine abbraccia un ampio spettro di significati che vanno dal conflitto interiore per raggiungere la perfezione spirituale al concetto di guerra santa (peraltro è soltanto in questa seconda interpretazione che il termine assume genere femminile, mentre è più corretta la declinazione maschile propria del termine arabo “sforzo”). Nell’Encyclopedia of Islam leggiamo questa definizione: “Giuridicamente, secondo la dottrina classica generale e nella tradizione storica, il jihad è un’azione militare volta all’espansione dell’islam e, eventualmente, alla sua difesa”.

Questa definizione ci dà modo di fare una serie di necessarie precisazioni. In primo luogo si deve osservare che, sebbene molto autorevole, questa non è l’unica possibile definizione del jihad (declinato al maschile), nel senso che, accanto all’idea, in termini molto generali, di una guerra connotata in senso religioso, esiste una tradizione quietistica propria del sufismo (un’interpretazione mistica dell’islam che nasce intorno al X secolo) che ha elaborato il cosiddetto jihad spirituale (talora detta jihad interiore o maggiore) che ha come sua dimensione l’intimità individuale del credente nel suo sforzo di emendarsi e contrastare le spinte edonistiche che l’allontanano dal vissuto spirituale più elevato. L’utilizzo del termine odierno è invece quasi esclusivamente limitato all’altro significato, quello di matrice militare, che trova legittimazione nella narrazione coranica (22:39) del trasferimento di Maometto da Mecca a Media nel 622 e nella fondazione di un primo Stato islamico che, come ogni realtà politica, richiedeva di essere difeso. Si formulava così la nozione più tradizionale del jihad, inteso come guerra difensiva per tutelare la comunità islamica da possibili attacchi provenienti dall’esterno (in quanto guerra legale, la si ritrova anche sotto l’indicazione di jihad minore o esteriore).

Come è possibile osservare siamo ancora ben lontani dal modo d’intendere il jihad nella forma più inquietante, il jihad offensivo, che allude alla possibilità d’intraprendere una guerra di aggressione e conquista contro non-mussulmani allo scopo di sottometterli e inscrivere il loro territorio d’insediamento nell’ambito del dominio islamico. Secondo l’Encyclopedia of the Orient  “il jihad offensivo, cioè l’aggressione, è pienamente permesso dall’islam sunnita”. È quasi inutile precisare che nozioni come questa sono tipiche del clima che si incontra allo “stato nascente” delle religioni rivelate in cui il proselitismo è legato alla preoccupazione che il nuovo messaggio religioso non si disperda con il passare del tempo, senza lasciare alcuna testimonianza della sua verità; ciò non di meno, come è ampiamente riconosciuto dalle correnti liberali del mondo mussulmano, anche ogni possibile attestazione letterale in questo senso riscontrabile nei testi sacri non è in alcun modo conciliabile con la sensibilità contemporanea in cui è fuori da ogni senso comune il solo fatto di immaginare la necessità o l’obbligo per un credente mussulmano della diffusione manu militari della propria confessione.

Ma l’argomento che veramente rompe ogni indugio riguarda il principio teologico, unanimemente riconosciuto nell’islam, che l’associazione fra jihad e guerra, in particolare nella sua versione offensiva, richieda di essere autorizzata da un rappresentante legittimo della comunità mussulmana, tradizionalmente identificato con il Califfo (come sappiamo Kemal Atatürk ha abolito il Califfato nel 1924, interrompendo definitivamente la lunga successione di sultani ottomani inaugurata nel 1517). Di conseguenza, il fatto che la jihad venga dichiarata da figure autocratiche appartenenti alla costellazione dell’islamismo radicale, come ci capita di osservare in questi anni, è palesemente in contrasto con i principi e la tradizione della regione mussulmana, ad ulteriore riprova dell’uso del tutto strumentale che ne viene fatto.

 davideg.bianchi@libero.it

 David Cook, Storia della jihad da Maometto ai giorni nostri, a cura di R. Tottoli, Einaudi, 2007; € 19,00 – pp. 279