Nel Natale della crisi i nostri militari all’estero hanno poco da festeggiare
24 Dicembre 2008
Il Natale lontano da casa è sempre un po’ triste. Chissà come lo festeggeranno i quasi 10.000 militari italiani impegnati all’estero. Probabilmente l’orgoglio di rappresentare il tricolore in terre lontane e disgraziate non basterà a lenire la mancanza degli affetti più cari nel giorno più bello dell’anno. Tant’è, il nostro è un Paese che chiede molto ai suoi militari. L’Italia è una storico partecipante alle missioni internazionali di stabilizzazione. Ancora oggi, come presenza militare all’estero, dopo Regno Unito, Stati Uniti e Francia, c’è il nostro Paese. Poco importa che il cappello sia quello ONU, NATO o UE, l’Italia è sempre in prima linea. Crollato il muro di Berlino, ne ha fatto la ragion d’essere della propria politica estera. I militari come strumenti della nostra diplomazia. In ballo non c’è solo un seggio all’ONU – per cui più si mostra bandiera più aumentano le chance di vedere riconosciuto un diritto storicamente perseguito dalle feluche tricolori – ma anche un retaggio. Una tradizione che viene dal lontano e che ancora oggi si perpetua in un residuo di mentalità sabauda e che ci porta, noi paese storicamente debole, a prendere parte a iniziative militari lontane dai confini nazionali – anche quando non sono in gioco fattori d’immediato interesse nazionale – per ottenerne una serie di benefici da spendere poi in sede diplomatica. E’ così che il conte di Cavour mandò a morire di colera i bersaglieri di La Marmora in Crimea. Per aprirsi il salone buono del Concerto europeo ed ottenere poi l’appoggio di Napoleone III alla causa dell’unificazione nazionale.
Il post-Guerra Fredda è costellato di crimee. Se si eccettuano i Balcani e la Somalia, ed in misura decisamente minore il Libano, difficile ritenere che in Iraq, a Timor Est, e persino nella stessa Afghanistan, il nostro Paese avesse ed abbia un interesse strategico forte da tutelare militarmente. In Iraq siamo andati perché ce lo ha chiesto il nostri principale alleato, gli USA. A Timor perché ce lo ha chiesto l’ONU ed in Afghanistan perché così hanno fatto tutte le democrazie occidentali. Ma in tutti e tre i casi le tracce di un interesse tangibile, paragonabile a quello che, data la prossimità geografica, avevamo ed abbiamo tuttora nei Balcani, sono labili. Agli storici spetterà poi il compito di rintracciarle e di stabilire quali benefici effettivi abbiamo ottenuto, o potremmo ancora ottenere, a fronte anche dei costi, umani ed economici, sostenuti.
Al di là delle motivazioni, che portano l’Italia ad essere sempre tra i primi paesi a timbrare il cartellino della partecipazioni a missioni internazionali, resta una realtà che tutti conosciamo: 2500 militari in Libano, altrettanti in Kosovo e poco meno in Afghanistan. E poi le missioni più piccole, come quella in Iraq dove i nostri carabinieri addestrano la Polizia locale nell’ambito della missione NTM-I (NATO Training Mission Iraq), o quelle residuali come la Bosnia, dove ormai i nostri militari ed i carabinieri non arrivano alle 400 unità. La cosa curiosa è che, appena usciti dall’Iraq, ci siamo imbarcati immediatamente nella missione in Libano, quasi che dovessimo rispettare una certa quota d’impegno militare internazionale e non ne potessimo scendere al di sotto.
Il problema è che quote del genere costano e mantenere quasi 10.000 miliari all’estero incide profondamente sui bilanci statali e di conseguenza sui cittadini. Un militare ti costa fuori area complessivamente 10 volte tanto di quanto ti costa in Italia. Nel conto, infatti, non va messo solo lo stipendio, che giustamente lievita per le indennità di sicurezza, ma anche la logistica e l’addestramento. La logistica poi è forse il fattore che incide di più. Ad un militare che opera all’estero non può mancare niente. Il benessere del personale prima di tutto. Dopo le storture ed i sudiciumi dei tempi della leva, finalmente l’abbiamo capito anche noi: un militare che sta bene fa meglio il suo mestiere. Ma se per teatri come il Libano e il Kosovo è relativamente semplice rifornire e sostenere le missioni – visto che i rifornimenti arrivano via mare in un caso nel porto di Beirut nell’altro nei porti albanesi – per l’Afghanistan è molto più complesso. Oltre il 70% del supporto logistico del nostro contingente giunge via nave nel porto di Karachi e da qui deve transitare per tutto il Pakistan su camion ed autocarri per entrare poi in Afghanistan dal Kyber Pass. I rischi sono quelli che sappiamo e che possiamo vedere tutti i giorni. Ma il rischio si paga ed i costi complessivi aumentano.
Se a queste considerazioni oggettive aggiungiamo i tempi di crisi e la scure che anche quest’anno si è abbattuta sulla Difesa, viene quasi da pensare che ci stiamo a fare. Ad un certo punto un siffatto impegno militare all’estero non sarà più sostenibile. Se si continua con i blocchi ai nuovi arruolamenti la componente operativa del nostro strumento militare sarà tra qualche anno ridotta veramente all’osso – e sono ragazzi di 25 anni ciò che chiedono i nostri comandi in Afghanistan e non marescialli, con tutto il rispetto, di 45. Senza parlare dei rischi d’inceppamento cui si sta andando incontro per via delle bastonate alle spese di esercizio. Chissà cosa penseranno di tutto questo i nostri ragazzi che a Tibnin, Herat o Pec si apprestano a festeggiare il Natale davanti ad alberi più tristi e disadorni di quelli di casa. Soprattutto, chissà cosa, di tutto questo, diranno loro i politici che andranno a trovarli.