Nel Paese delle meraviglie c’è posto per Haruki Murakami

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Nel Paese delle meraviglie c’è posto per Haruki Murakami

06 Febbraio 2012

Haruki Murakami rappresenta la voce umana ed onirica del postmodernismo letterario, che ci parla della nostra società liquida, delle sue fratture e delle sue ingestibili ed imprevedibili frammentarietà, trasfigurandole nel linguaggio dei sogni e del surreale. Murakami è postmoderno nella misura in cui ibrida l’amore per la riflessione e la fantasia, propria della weltanschauung giapponese – a cui si aggiunge una certa predilezione per l’ambientazione bucolica quale metafora dell’inconscio – con la cultura occidentale: Dostoevskij (menzionato proprio ne La fine del Mondo ed il paese delle meraviglie), Kafka ( si pensi a Kafka sulla spiaggia, titolo italiano del suo romanzo pubblicato nel 2002), Hemingway, Bob Dylan, i Doors e la musica classica.

Un interessamento intellettuale che va oltre il semplice atto del “consumare” il prodotto di un’altra cultura, come emerge anche da alcuni episodi bibliografici: l’adesione ad un movimento di protesta studentesco contro la guerra nel Vietnam durante l’università ( in Giappone) o l’apertura di un jazz bar – il jazz, la grande musica americana – che costituì la principale occupazione di Murakami, prima che si dedicasse totalmente alla scrittura. Prodotto di questa mix intellettuale è una bibliografia che spazia dal noir al saggio, passando per la storia d’amore e la fiaba surreale, che in Italia ha riscosso notevole successo perché espressione di un modo di narrare che si potrebbe definire “nostrano”.

Il riferimento è ad autori quali Calvino e Buzzati a cui Murakami può essere facilmente accostato. Ciò che accomuna questi scrittori è la capacità di raccontare la realtà attraverso la metafora, articolata da un linguaggio semplice, frizzante e scorrevole ma dotato di una grande densità semantica. Come accade, appunto, ne La fine del mondo e il paese delle meraviglie, un romanzo che si dipana attraverso la narrazione che alterna due mondi collegati fra loro. “Il paese delle meraviglie” è la realtà scarna e apatica in cui si muove il protagonista, un cibermatico, ovvero un informatico che a seguito di un operazione al sistema nervoso è in grado di criptare dei dati facendoli passare da un emisfero all’altro del proprio cervello, sfruttando il suo inconscio come sistema di crittografia.

Il cibermatico lavora per il Sistema, un’organizzazione che controlla il mercato dell’informazione, una società la cui voracità liberista e pervasività economica l’ha portata a coincidere con la struttura politico-amministrativa dello stato. Murakami tratteggia una società dell’informazione monopolizzata da un soggetto privato, che sfrutta gli esseri umani come cassette di sicurezza. Un monopolio che è in realtà un duopolio, con i contrabbandieri, i Semiotici, impegnati nel furto di informazioni, da rivendere al mercato nero.

Immediato è il richiamo al Cyberpunk, a Neuromante, il thriller cibernetico di William Gibson, in cui multinazionali ed hacker tessono le fila di una trama che ruota attorno alla pregiata merce della conoscenza. Ma, come detto in apertura, Murakami ama spingersi oltre, interrogando la realtà attraverso l’onirico. E così subentra “La fine del mondo”, una dimensione in cui il cibermatico precipita a seguito – o durante, la narrazione è strutturata in modo tale da far sembrare gli eventi narrati, coincidenti – di un esperimento effettuato dallo scienziato che ha eseguito l’operazione al suo cervello: l’innesto, nel tessuto nervoso, di un circuito in grado di sviluppare una simulazione modulata dall’inconscio.

Ne “La fine del mondo” Murakami ci racconta di una città circondata da montagne insormontabili, dove gli abitanti sono costretti a rinunciare alle loro ombre perdendo così cuore e sentimenti, che vengono racchiusi nei teschi degli unicorni che abitano le radure. Sogni che vengono poi interpretati dal Lettore dei sogni, la controparte onirica del cibermatico. Se “Il paese delle meraviglie” è una distopia incentrata sulla mercificazione della vita umana, “La fine del Mondo” è, invece, un’utopia apatica in cui si dipinge una città perennemente identica, che si preserva da ogni possibile danno o stravolgimento perché i suoi abitanti non hanno più il cuore e vivono scivolando attraverso i giorni, incapaci di provare sentimenti e di dare un senso alla loro esistenza.

Nel gioco di Murakami sogno e realtà, utopia e distopia finiscono col confluire sulla stessa tela, disegnando un quadro narrativo che vuole essere una denuncia verso l’indifferenza nei confronti dei sentimenti. “La fine del mondo” e “Il paese delle meraviglie” sono emotivamente collegate da quel senso di distacco e di nostalgia che pervade l’intero romanzo. I personaggi che si muovono al loro interno non hanno nomi propri, ma sostantivi che derivano dai loro ruoli: il Guardiano, il Colonnello, lo Scienziato, la Bibliotecaria; quasi a voler privare i soggetti della loro individualità che, guarda caso, viene definita dallo stesso Murakami come l’insieme delle memorie e dei sentimenti di un individuo. Memoria e sentimento, le radici dell’io la cui assenza, sia essa reale o virtuale, non può che tradursi nella perdita della propria specificità.