Nel Pd Veltroni sceglie la ritirata strategica e Bersani si rafforza

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Nel Pd Veltroni sceglie la ritirata strategica e Bersani si rafforza

24 Settembre 2010

Gli squilli di tromba dell’annunciata divisione alla fine si stemperano in una mezza tregua forzata e piena di rancori. Finisce così la “scossa” tentata da Walter Veltroni, una sortita che assomiglia più a una figuraccia e a una brusca retromarcia che a un movimento tellurico finalizzato al rilancio della sua leadership.

Sei ore di dibattito nella sede del Pd producono una sola evidenza: l’astensione di 32 membri, componenti dell’area che fa capo all’uomo del Lingotto, a Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, ma anche alla mozione di Ignazio Marino. Un risultato figlio della volontà del segretario e dei falchi della maggioranza interna di arrivare a una conta e misurare davvero le forze in campo.

L’altro dato è l’ufficializzazione del passaggio sostanziale di Dario Franceschini nell’area di sostegno alla maggioranza. “Il documento ha sancito una divisione tra chi ritiene sia utile un’opposizione nel partito e chi chiede più collegialità e unità. E’ una divisione oggettiva, lo dico senza rancore. Il documento dei 75 è nato per questo, mi sembra difficile ricomporre le cose” commenta il capogruppo del Pd alla Camera. Di certo si tratta di “un’iniziativa che ha diviso la minoranza del Pd. Io ho votato convintamente a favore della relazione di Bersani perché è prevalsa la consapevolezza che in un momento così difficile gli italiani si aspettano che il più grande partito d’opposizione sia unito”. Parole che sigillano una certezza diffusa fin dalle prime ore della mattinata di ieri, ovvero che il ribaltone e l’avvicinamento di Franceschini – ma anche di Piero Fassino e Franco Marini – a Bersani ha ormai preso definitivamente corpo. Una circostanza che rende i rapporti di forza ancora più sbilanciati a favore del segretario e cristallizza gli equilibri di potere interni costruiti dopo il congresso.

Non è facile per Veltroni spiegare come si sia arrivati a questo traguardo dai contorni “tafazziani”. Di certo, se fino a poco prima dell’intervento di Bersani dall’area veltroniana arrivavano messaggi bellicosi (“Sta a Bersani decidere se avviare un confronto o chiudere”), ora la musica è cambiata e i veltroniani si sforzano di sottolineare le “aperture” del segretario, in realtà non così facilmente leggibili. Sì, perché Bersani, nel suo intervento in direzione, ribadisce che il documento critico dei 75 (nel frattempo diventati 76 con Cinzia Capano) ha prodotto “un effetto oggettivo di sbandamento e di sgomento tra gli elettori”. Concede che le difficoltà ci sono: “Non trasmettiamo un’idea di rinnovamento, bisogna che riflettiamo con più generosità come gruppo dirigente”. Detto questo, “rispetto al discorso di Torino non ho niente di sostanziale da correggere e lì c’è la bussola: non possiamo fare il gioco dell’oca, ricominciare da capo”. Il tutto condito da un messaggio netto: “Gli organismi dirigenti non possono diventare l’infermeria delle ammaccature che avvengono sui giornali”. Come dire che se finora ci si è messo di impegno a lavorare con ago e filo per ricucire gli strappi, ora andrà dritto per la propria strada.

Il dato della giornata, alla fine, è l’allargamento di fatto della maggioranza bersaniana e la certificazione che il ruolo di guida della minoranza passa in mano a Veltroni. L’ex sindaco di Roma, in direzione, sceglie il low profile. Nega di essersi prestato agli interessi della destra – come qualcuno gli rimprovera – cita altri esempi di polemiche interne che gli sono piovuti addosso quando guidava lui il partito: la creazione di Red da parte di Massimo D’Alema, un’intervista di Bersani che annunciava la sua candidatura a pochi giorni dalle elezioni in Sardegna e il documento di quattro dirigenti contro di lui. Veltroni minimizza lo scontro, riprendendo le parole di Bersani: “Quando moglie e marito litigano, poi vanno dai ragazzi e dicono: tranquilli, non è successo nulla, stavamo solo discutendo”. Poi appone la necessaria chiosa in positivo: “Il partito ne esce più forte. Bersani accoglie problemi e ansie nostre”. Ora però “bisognerà che ci sia una maggiore convocazione degli organismi dirigenti e più discussione lì dentro”.

Naturalmente questa posizione dialettica e non di rottura viene letta sul versante della maggioranza interna come il segno di una ritirata strategica. E ora si apre un altro confronto, quello sul nuovo “patto di sindacato del Pd” – il copyright è del “Riformista” – in cui devono coesistere le posizioni dei falchi (la Bindi in primis, ma anche Franceschini e Fassino) con quelle delle colombe alla Enrico Letta. Quel che è certo è che il giorno dopo la riunione della direzione del Pd, la sensazione che resta sulla pelle è quella della (solita) ricomposizione forzata e di facciata, nel nome di quel totem vetusto chiamato “unità interna”. Una sorta di cestino in cui nascondere rancori, furbizie tattiche e aspirazioni personali e tenerli lì a giacere. Almeno fino alla prossima intervista.