Nella crisi thailandese spunta la Cina in appoggio alle “camicie rosse”
09 Aprile 2010
La Thailandia è da pochi giorni un paese in stato di emergenza e sotto legge marziale per la quarta volta negli ultimi due anni. L’“onda rossa” guidata dai seguaci dell’ex premier Thaksin Shinawatra non si è fermata e dopo l’irruzione nel Parlamento che ha costretto alla fuga numerosi deputati e ministri (alcuni dei quali hanno riparato all’estero) e l’assalto al palazzo della Thaicom per protestare contro la chiusura del “Canale del popolo”, colpevole di diffondere informazioni fuorvianti ed istigare alla protesta, chiusosi peraltro con l’occupazione del canale, per fortuna incruenta, ieri le forze di polizia hanno disperso con gas e lacrimogeni i partecipanti alla grande manifestazione organizzata nella capitale come sfida al divieto di riunioni imposto dal governo.
L’esercito si mantiene invece in una posizione di cautela e proprio il generale Anupong Paojinda ha confermato di voler evitare, fin quando possibile, qualsiasi atto di esplicita opposizione. Proprio questa posizione rende il premier Abhisit Vejjajiva ancora più debole ed isolato agli occhi della popolazione e delle altre istituzioni. La rivoluzione “gialla” che pure aveva portato Abhisit al potere due anni fa ora ha sempre meno peso nel paese. Thaksin ha incitato “le camicie rosse” mediante la televisione e tramite il suo sito internet a proseguire nella protesta per costringere alle dimissioni il premier ed il suo governo e quindi giungere a nuove elezioni dove sicuramente i “rossi”, rappresentanti del ceto medio-basso che costituiscono il 60% della popolazione, risulterebbero vincitori. La situazione potrebbe però degenerare in un vero e proprio conflitto civile qualora anche l’esercito intervenisse dando l’assist a Thaksin per un ritorno, nonostante la condanna giudiziaria e l’interdizione politica subita dopo il colpo di stato del 2006.
In tutto ciò un ruolo fondamentale sarà svolto dalla Cina, la cui assenza nelle mediazioni ed il silenzio dell’intera classe dirigente del Partito Comunista fa pensare un appoggio, sebbene non esplicito, alla rivolta delle “camicie rosse” ed il rilancio di Thaksin o di un altro suo delfino di origine cinese. Nella bolgia dei colori politici, anche il movimento delle camicie blu vicine alla monarchia ed i partiti ad essa vicini, pur ridimensionati da Thaksin, si sono sfilati dalle posizioni di Abhisit che non ha fronteggiato la crisi di investimenti, l’aumento della povertà e l’incredibile crollo del turismo (che copre più di 1/3 dell’economia thailandese) oltre a non aver mai abbandonato i propositi di una riforma del Parlamento, imponendo una quota del 60% di membri del medesimo da eleggere fra le categorie professionali contro il 40% di eleggibili fra la popolazione. Ora tutti i nodi vengono al pettine e quasi sicuramente, al di là della mediazione proposta dalle Filippine proprio ieri, sarà il gigante cinese insieme con l’esercito, l’arbitro della contesa che nessuno vuole sfoci in un ennesimo focolaio bellico o dittatoriale nel Sud-Est Asiatico, per giunta il più ricco ed occidentalizzato.