Nella prosa di Henry Miller New York è sempre stata border line

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Nella prosa di Henry Miller New York è sempre stata border line

26 Aprile 2009

Il torno d’anni – a dire il vero, neanche poi così breve – è quello che separa “Tropico del Cancro” da “Tropico del Capricorno”. Il calendario segna la data del 1935. Dopo un fugace rientro a New York, Henry Miller è di ritorno a Parigi. L’occasione è buona per scrivere una lunga lettera all’amico Alfred Pérles. Sembra solo una puntata dell’infinito dialogo epistolare di un autore che, ha osservato George Wickes, “come l’Herzog di Saul Bellow era compulsivo nella corrispondenza, capacissimo di scrivere una lettera a Dio, al generale Eisenhower o a Spinoza, ma a suo pieno agio soprattutto nelle lettere ai vecchi amici”.

Sembra, appunto, ma non lo è. Perché, come ricorda Francesco Pacifico nella vivace e informata prefazione al libro ora pubblicato per la prima volta da Minimum Fax, “in ‘Parigi-New York andata e ritorno’ troviamo un Miller altrettanto privato di quello da bagno”, felice “perché davvero non corregge un rigo di quello che scrive (e il suo editore garantisce che la lettera è stata pubblicata così com’era). Se si mette a predicare lo fa quasi scimmiottando se stesso, e assomiglia a un matto in piedi su uno sgabello, a Hyde Park, col megafono”.

Nella divertente lettera a Pérles. il tono dell’informalità e dell’irriverenza dell’autore di “Crocifissione in rosa” raggiunge la tonalità spassosa di uno spartito difficilmente riscontrabile nella sterminata bibliografia milleriana. La cifra predominante – va da sé – resta sempre quella dell’anticonformismo, a cominciare dalla malcelata simpatia per figure irregolari e border line. In primis, i gangster: “Questi ragazzi girano il mondo e lo fanno in aeroplano e su treni aerodinamici, color platino, più leggeri dell’aria, e con aria condizionata inclusa. Sono gli unici in America a godersi la vita finché dura. Li invidio. Mi piacciono le loro camicie, e le cravatte vivaci, e i tagli di capelli vistosi. Sono sempre freschi di lavanderia e uccidono solo con addosso il loro vestito migliore”.

In poco meno di un centinaio di pagine, Miller passa così al setaccio la società newyorkese anni ’30, la anatomizza, ne deride cliché e luoghi comuni, ne smonta lo splendore ingannevole e il piglio arrembante fino a scrivere: “Quando penso a New York, penso a un neonato gigante che gioca con gli esplosivi. Non tanto nuovo, piuttosto disumano”. È l’identikit di una città scrutata da occhi forse troppo malevoli. Ma è al tempo stesso un trompe-l’oeil che restituisce anche l’altra faccia, crepuscolare e raggrinzita, di quell’“età del jazz” raccontata da un altro peso massimo della letteratura americana, Francis Scott Fitzgerald.