Nella Russia di Stalin i cannibali esistevano davvero
13 Gennaio 2008
Il libro che qui segnaliamo (N. Werth, L’isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all’interno dell’arcipelago gulag, Milano, Corbaccio, 2007, pp. 189, € 16,60) si occupa di un tema che possiamo definire classico della discussione sui regimi collettivisti: comunismo e cannibalismo. L’immagine dei comunisti che mangiano i bambini è appartenuta dapprima all’anticomunismo emotivo e spontaneo poi, in tempi più recenti, è stata utilizzata ironicamente dai sostenitori dei regimi sovietici e parasovietici per volgere in dileggio le accuse loro rivolte. Fortunatamente il libro di Werth non prende posizione nella polemica, ma si mantiene sul piano della serena ricostruzione storica. A questo proposito, allora, una prima considerazione s’impone. A distanza di oltre un quindicennio dalla fine dell’Unione sovietica e dall’apertura degli archivi del defunto regime, le ricerche storiche sulla Russia bolscevica hanno conosciuto non solo una considerevole crescita quantitativa ma, soprattutto, un innegabile salto di qualità. Oramai esiste una generazione di storici cresciuti in un ambito lontano dalla partigianeria, ma interessata a capire le vicende del regime sovietico. In altri termini, la storia dell’Urss ha acquisito una sua dimensione pienamente scientifica volta a periodizzare le varie fasi del regime, intenderne lo svolgimento, inquadrare i singoli fatti nel loro contesto. Il saggio di Nicolas Werth è un frutto maturo di questa stagione storiografica. Basato su di uno scrupoloso lavoro d’archivio, consapevole del quadro generale nel quale i singoli avvenimenti analizzati vanno a collocarsi, capace di un innegabile distacco ma animato da una profonda empatia ermeneutica.
La vicenda dell’isola di Nazino, nel cuore della Siberia, dove si verificarono casi di cannibalismo, si colloca nell’ambito di un’operazione di “pulizia sociale” avviata in Urss nei primi anni trenta del secolo scorso. L’idea era quella di deportare in Siberia “elementi declassati e socialmente nocivi” allo scopo di creare delle colonie di popolamento. Una sorta di alternativa al gulag; non campi di lavoro, ma insediamenti. A sua volta questo progetto (successivamente abbandonato) era parte della campagna di dekulakizzazione, volta a distruggere la classe dei contadini proprietari. La dizione di “elementi declassati e socialmente nocivi” era abbastanza elastica da lasciare larghissimo spazio all’arbitrio della polizia. Nel corso della trattazione affiora spesso l’arresto del tutto casuale di persone, perfino di iscritti al partito, motivato dalla necessità di raggiungere la quota fissata.
Alcune migliaia di deportati furono stanziati nell’isola di Nazino, in condizioni per lo meno disperate: senza abitazioni, senza utensili o attrezzi, senza vestiti, senza cibo (tranne razioni di farina comunque insufficienti per tutti). I casi di cannibalismo vanno letti all’interno di questo contesto e si possono riportare a due tipologie. In primo luogo c’era la condizione di estrema penuria che spingeva verso l’antropofagia, non sempre collegata all’omicidio. Chi moriva per inedia o per sfinimento serviva da nutrimento agli altri. In secondo luogo c’era l’abitudine, diffusa tra i delinquenti abituali deportati, di evadere portando con sé qualche giovane e inesperto condannato, in gergo una “vacca”, da scannare in caso di necessità. Werth interpreta questi casi di cannibalismo come un aspetto particolare di un processo di “decivilizzazione” che caratterizza l’esperienza sovietica in quel periodo. Un processo che riguarda la tecnologia e la cultura materiale, tant’è vero che i responsabili dell’isola avevano ripreso a scrivere su cortecce di betulla, data la scarsità di carta, ma che soprattutto investe i rapporti umani. Rapporti di una violenza estrema, “fondati su una vera e propria animalizzazione dei deportati”. In definitiva “l’utopia modernizzante di un’ingegneria sociale purificatrice e civilizzatrice perfettamente controllata fece paradossalmente riemergere una lunga serie di arcaismi. Da questo punto di vista, l’episodio fu lo specchio dell’intero progetto staliniano” .
Da un altro punto di vista la dekulakizzazione e le deportazioni di massa ci presentano la versione sovietica della banalità del male. Gli arresti e le deportazioni erano la conseguenza di un progetto complessivo di riorganizzazione forzosa della società. Queste retate erano pianificate in progetti avanzati, discussi e approvati da zelanti dirigenti del partito, compresi della grande opera di edificazione del socialismo. Certo, all’entusiasmo pianificatore corrispondeva in genere una traduzione pratica approssimativa, sciatta, confusa. Tuttavia la sciatteria non leniva la complessiva ferocia delle operazioni, ma aggiungeva un ulteriore quoziente di arbitrio e di brutalità.
In conclusione, proprio perché l’analisi di Werth non è svolta con furore ideologico, e non è mossa da un pregiudizio sfavorevole, le risultanze risultano ancora più impressionanti e, se si vuole, definitive. Il senso ultimo del comunismo si disegna con nettezza: non un grande ideale di liberazione, magari tradito da una imperfetta applicazione, ma una sovversione brutale e violenta dell’ordine naturale del mondo.