Nella trattativa Opel ha vinto il piano più gradito alla politica e al sindacato

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Nella trattativa Opel ha vinto il piano più gradito alla politica e al sindacato

31 Maggio 2009

Nella trattativa Opel non ha vinto il progetto industriale migliore ma quello più gradito alla politica e al potente sindacato tedesco. Il Gruppo austriaco Magna non ha sicuramente il know how della Fiat, ma ha promesso l’apporto di risorse fresche, messe a disposizione dal socio russo. Così l’establishment politico e sindacale tedesco spera di poter evitare almeno parte dei costi sociali necessari per la ristrutturazione dell’Opel.

 

Al dunque, è prevalsa la logica del c.d. modello sociale europeo, da sempre più attento al mantenimento di un sistema di garanzie ormai divenuto insostenibile piuttosto che all’affermazione di un’economia sana e competitiva. Dal momento che i processi si sono svolti alla luce del sole, ognuno è stato in grado di verificare (e di apprezzare) la differente linea di condotta tenuta dall’Amministrazione Obama nel caso Chrysler e, in quel contesto, il grande realismo dei sindacati americani e canadesi.

Naturalmente, l’opposizione non ha perso l’occasione per criticare il Governo, reo a suo dire di aver lasciato sola la Fiat, mentre a Berlino arrivavano pressioni di ogni tipo su Angela Merkel a favore della Magna e del socio russo. Che faccia tosta!

Durante tutto il negoziato il Pd ha mantenuto un silenzio assordante ed imbarazzato. Basti pensare che non solo nella mozione del Pd sul mercato del lavoro nel Sud, ma anche in quella sul settore manifatturiero (ambedue a prima firma Franceschini, votate insieme alle altre la scorsa settimana alla Camera) non fosse neppure nominato il caso Fiat, nonostante che sia la dimostrazione più evidente delle potenzialità del nostro apparato manifatturiero. Non può essere condannato, infatti, ad un inesorabile declino un sistema produttivo la cui leadership ha la forza e l’audacia di impegnarsi in un’operazione di internazionalizzazione tanto brillante e innovativa. Ciò a prova che a qualche cosa sarà pure servito il "pacchetto" sui settori in crisi varate dal Governo se, calcolando l’Unione europea a 27 (compresi i nuovi stati membri), Fiat Group Automobiles ha immatricolato ad aprile 121.671 vetture nuove, segnando un rialzo del 4,7% rispetto ad un anno fa.

In Europa occidentale, il solo marchio Fiat ha immatricolato il mese scorso 94.836 unità, in aumento del 5,7% rispetto ad aprile 2008. Il marchio Lancia scende dell’1,2% (a 10.769 unità) e Alfa Romeo avanza del 5%, a 10.043 unità.  Abbiamo sempre pensato che fosse un errore di prospettiva lamentarsi di una Fiat che può diventare "grande nel mondo" e "piccola in Italia". Lo ricordiamo ai dirigenti della Fiom, i soli che almeno hanno avuto il coraggio di dire alla luce del sole quello che in tanti pensano e che hanno sperato potesse realizzarsi. Per Rinaldini e soci, il fallimento del negoziato è stato un fatto positivo perché "mette in sicurezza" gli stabilimenti italiani, quello di Pomigliano d’Arco e di Termini Imerese innanzi tutto. Eppure è noto che, in futuro, le aziende produttrici di automobili, nel mondo, si ridurranno, al massimo, al numero delle dita di una mano. E si aprirà quindi una dura lotta per la sopravvivenza che avrà come condizione necessaria il recupero di competitività. Ormai non è più soltanto una questione di costi, ma anche di qualità del prodotto. Ed è sulla qualità ecologica del prodotto che la Fiat ha vinto la sfida che gli ha consentito di valicare non solo le Alpi (come diceva l’Avvocato), ma anche l’Oceano. Non sarà mai possibile infatti avere – in paesi come l’India e la Cina – una diffusione dell’auto paragonabile a quella esistente negli Usa e in Europa senza compiere quel salto tecnologico in grado di rendere compatibile lo sviluppo della motorizzazione e la salvaguardia dell’ambiente.

I (pochi) colossi di un futuro ormai prossimo potranno reggere la sfida ad alcune precise condizioni, la più importante delle quali risiede nella piena valorizzazione della dimensione multinazionale delle imprese.

 In sostanza, le grandi holding dell’auto del futuro dovranno avere stabilimenti nelle aree strategiche del mondo, laddove è attesa un’esplosione dei mercati. Prima ancora che una comprensibile esigenza di disponibilità delle reti commerciali e dei trasporti, resta decisivo un problema di costi concorrenti.

Nell’industria dell’auto il costo del lavoro continua ad avere un rilievo determinante nella battaglia per la competitività sui mercati internazionali. Delocalizzare non significa – necessariamente e sempre – privare del lavoro gli operai italiani o francesi o tedeschi, ma poter applicare ai lavoratori dell’Europa benestante dei contratti di lavoro e dei sistemi di welfare che altrimenti sarebbero insostenibili. In sostanza, possiamo permetterci le nostre condizioni di lavoro e di vita soltanto perché in altre parti del mondo vi sono lavoratori che producono per le nostre imprese a costi più ridotti. E’ normale che il settore manifatturiero si sposti continuamente alla ricerca di condizioni più vantaggiose nell’utilizzo della forza lavoro. Tutto ciò premesso, fallito il terzo punto di appoggio della multinazionale Fiat Group, Sergio Marchionne è alla ricerca di altre soluzioni in grado di riequilibrare nel Vecchio Continente il passo compiuto nel nuovo. Speriamo che ci riesca. E che – se occorre e viene sollecitato – il Governo gli dia una mano.