Nella valutazione degli alunni ciò che conta è la bravura dell’insegnante

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Nella valutazione degli alunni ciò che conta è la bravura dell’insegnante

28 Novembre 2010

Si è riaperto il dibattito sui voti dalla Francia all’Italia. I voti fanno bene o male. Valutare in numeri o valutare con le parole? Cosa sono i voti? Cosa vuol dire valutare? Cosa mettiamo in questi concetti, in queste parole e in questi numeri? Questo è a mio avviso il punto su cui riflettere.

Il voto è uno strumento come lo sono anche le parole che esprimono una valutazione. Entrambi possono essere pietre o strumenti di crescita. Come al solito è il contesto e le persone che lo animano che fanno la differenza. Se c’è una buona relazione fra alunni e insegnanti, se l’insegnante ha la giusta preparazione psicopedagogica e disciplinare, il giudizio espresso in numeri o in parole rappresenta la valutazione della performance di un ragazzo o di un bambino e niente altro. Il bravo insegnante sa benissimo che il giudizio è la valutazione di una prestazione, che chiaramente può risentire di mille variabili, e non la valutazione della persona, poiché sarebbe impensabile! Si valuta solo cosa ha saputo fare in quella prova e in quel giorno quell’alunno.

Ora, se vista così la questione, si capisce che la querelle che si sta facendo in Italia e in Francia è inutile. Qual è la differenza nel dire ad un alunno di qualunque età: hai preso cinque o hai preso insufficiente? Nessuna, alla luce di quanto detto sopra. Insufficiente se diretto alla persona e non al risultato di una prova, può essere molto più violento e pieno di significati reconditi da far  sentire molto peggio un ragazzo rispetto al più freddo ma anche più banale voto cinque. Alcune valutazioni che si sono lette negli anni passati erano davvero penalizzanti, altro che voti! Cito alcune di quelle ritenute più "corrette" non ha raggiunto gli obiettivi minimi, non è motivato, non è interessato poiché manca degli strumenti intellettivi adeguati, disturba la classe, rendimento scarso, potrebbe fare di più, non è maturo, non è sensibile, non è cognitivamente dotato, è scorretto! Queste possono essere frasi che umiliano molto di più di un quattro o di un cinque.

Ma tutto cambia se vogliamo essere falsi e giocare con le parole. Allora possiamo dire che il non capire, il lasciare spazio all’immaginazione fa meno male di un brutto voto. Ma a chi? Ai genitori? O è meglio che anche il bambino si abitui al non detto? Al non capire cosa si sta dicendo di lui. Credo che i fantasmi evocati da paroloni, da giudizi a volte incomprensibili che esprimono una negatività che si cerca di coprire, possono danneggiare molto più della chiarezza declinata in voto. Il non capire può far pensare ai bambini e ai ragazzi che si hanno problemi più gravi di quelli reali. Un messaggio poco chiaro può far pensare di essere stupidi di non valere che è molto più grave del non saper fare bene una particolare materia. Questo pensiero mina l’autostima. Inoltre la chiarezza per la crescita, per l’apprendimento e la conoscenza di se stessi e delle proprie capacità è essenziale.

E’ molto meglio sapere che si è fatto un compito da tre, ma che quel tre si può gestire, modificare perché rappresenta come io oggi ho organizzato il mio sapere, come mi sono concentrato, quanto ho studiato, e non per forza quanto sono intelligente. Dunque se inteso così, qual è la differenza tra tre e fortemente insufficiente? Nessuna per i bambini e i ragazzi. Possono essere entrambi i giudizi devastanti. E’ il come si danno che fa la differenza. Se l’insegnante pensa che sia il ragazzo a valere tre o ad essere fortemente insufficiente come individuo e non per la sua prestazione, il danno è fatto, anche se espresso in parole e non in voto. Se la maestra non ha con il suo piccolo alunno una significativa relazione nella quale circola affetto e stima reciproca sia il numero che la parola sono schiaffi e non concetti che si possono accettare ed elaborare per crescere.

Se gli alunni incontrano professori e maestre che sanno capire la differenza tra la persona e il comportamento; la differenza tra umiliare e motivare; l’importanza del valore da attribuire alle differenze individuali  imprescindibile per la comprensione delle persone; se capiscono che riconoscere il merito di un ragazzo non vuol dire scatenare la competizione ma al contrario tutelare tutti; sarà indifferente il giudizio espresso in voto o in parole.

Cosa che non può accadere se lasciamo intendere ai ragazzi che sono tutti uguali. Devono essere tutti uguali per le opportunità, ma tutti diversi per come le potranno accogliere. Riconoscere il merito vuol dire solo apprezzare e valutare tutti gli individui poiché ognuno avrà un merito  speciale in un’area mentre è un falso far credere ai ragazzi che si è tutti uguali. Dire questo non vuol dire serie a e serie b ma solo diverse capacità, diversi interessi, diversi risultati. Questa è la verità per tutti noi.

Trovo che si facciano grandi danni se si insegna ai ragazzi che siamo tutti uguali e che avremo tutti gli stessi risultati in medesime aree del sapere. Questo scatena la competizione malsana, poiché se si lascia pensare che tutti possiamo avere le stesse competenze ed accedere alle stesse cose, alle stesse strade si instaura l’odio che deriva dall’idea che forse non ce ne è abbastanza per tutti e quindi dobbiamo farci la guerra per accaparrarci un posto, un voto, una persona. Se invece si evidenzia la strada delle differenze individuali si capirà già da piccoli che la mia strada è solo la mia e non potrà essere uguale a quella di nessun altro, perché siamo diversi. E dunque l’altro è automaticamente solo altro da me, e non il nemico da abbattere, da raggiungere, da emulare. Non c’entra nulla con la mia realizzazione, con la mia individuazione.

Allora la questione è un’altra, cosa devono saper fare gli insegnanti per poter valutare i loro alunni bene, che sia in numeri o in parole? La spinosa questione della formazione degli insegnanti. E’ su questo che bisognerebbe intendersi. Un insegnante dovrebbe essere in grado di capire le diverse modalità di apprendimento dei propri alunni che rispecchiano le differenze individuali. Dovrebbe saper programmare un percorso che porti ognuno di loro con la proprie specificità a cogliere i concetti che saranno uguali per tutti. A quel punto valuterà ognuno rispetto al proprio risultato che non potrà essere uguale ed omologato.

Quando gli alunni saranno stati da sempre abituati a capire le differenze che ci sono tra gli individui si abitueranno anche a valutare i risultati diversi. Capiranno che essere da dieci in italiano non vuol dire essere il primo in tutto, perché in altre aree disciplinari o comportamentali può accadere che lo stesso ragazzo sia insufficiente. Quindi se si imposta così la valutazione, non fa grande differenza il numero o la parola. Anzi il numero può essere molto più chiaro ed efficace rispetto alle parole. Il famoso capire e non capire, dire e non dire, può fare molti più danni di un voto.