Nell’autobiografia dell’Italia il “welfare” è una storia che non cambia mai
10 Aprile 2011
La configurazione dello Stato sociale rappresenta l’autobiografia di un paese, del rapporto fra Stato e società che lo caratterizza, del livello di coesione fra i cittadini e le classi che lo segna, dell’ordine di priorità che esso attribuisce alle istanze della solidarietà e a quelle dello sviluppo, dell’equità intergenerazionale che vi si può riscontrare, del mutare storico dei rapporti di forza, delle sensibilità, delle rivendicazioni che ne hanno orientato la genesi nel tempo.
Ma, come in ogni campo, anche in quello del welfare state il capitolo di quell’autobiografia scritto negli anni settanta, oltre che molto corposo, è stato ed è tuttora vissuto come quello definitivo, l’assetto scaturito dal massimo grado di progresso pensabile e perciò come una conquista da difendere a tutti i costi in ogni suo dettaglio. Tutta la legislazione sociale di allora, nella rappresentazione odierna, cessa di essere una risposta storica a circostanze storiche, come tale rivisitabile al mutare delle circostanze, per divenire un totem rispetto al quale qualunque evoluzione successiva, qualunque nuova condizione di bisogno, qualunque attore sociale nuovo e portatore di altrettanto nuove necessità, non potrebbero che essere fattori di arretramento sociale, cavalli di Troia della reazione.
Quello del welfare è un campo in cui si possono osservare allo stato puro, come in un esperimento in vitro, tutte le dinamiche che hanno segnato questi quarant’anni; l’approccio ideologico, la rivendicazione spinta ai massimi livelli, il mancato calcolo delle compatibilità, la fiducia interessata in uno sviluppo capace di sanare da sé ogni squilibrio, la dimensione del "presente assoluto" come unica possibile, e poi via via l’arroccarsi a difesa dei privilegi conquistati contro qualunque tentativo di riforma, la retorica delle lotte per i diritti passate e presenti, della quale una generazione cresciuta a dosi da cavallo di "uguaglianza sostanziale" ha bisogno come dell’ossigeno per nascondere a se stessa il proprio egoismo corporativo.
Un’eguaglianza tutta particolare che, come per gli animali di Orwell, riguarda solo alcuni, e che ha come orizzonte i punti d’arrivo anziché quelli di partenza. Un’eguaglianza diseguale che si annida negli ordinamenti e da essi viene perpetuata. Si tratta di una conseguenza inevitabile allorché gli status sociali conseguiti divengono immodificabili. Fin che è possibile, i preesistenti regimi vengono estesi ai ceti sociali successivamente cooptati. Poi, quando le risorse non sono più sufficienti e si rendono necessarie le rinunce di chi ha voce in capitolo a favore degli esclusi, si produce automaticamente la seguente sgradevole alternativa: o le cittadelle si chiudono ai nuovi venuti oppure fanno loro posto a tavola indebitandosi. A scapito, quindi, delle generazioni future, chiamate a rispondere delle mani bucate dei loro padri e nonni.
Da noi si sono verificati ambedue i fenomeni e, cumulandosi, hanno prodotto ulteriori danni. Le colonne d’Ercole del sistema italiano sono sostanzialmente costruite su due leggi emblematiche che affondano le radici in quella medesima stagione politica, sociale, culturale: la pensione retributiva di anzianità e lo Statuto dei lavoratori. Ovviamente, intorno a queste due imponenti querce è cresciuta una rigogliosa foresta, a presidio del welfare all’italiana, nella quale spicca una pianta ad alto fusto, ampia ramificazione e profonde radici: il Servizio sanitario, creatura prediletta della solidarietà nazionale della seconda metà degli anni settanta. La riforma sanitaria rimane, tuttavia, l’unica eccezione universalistica nel modello di Stato sociale prevalente in Italia, a base lavoristico-occupazionale. Un modello in forza del quale i diritti sociali sono annessi a una condizione lavorativa.
La legislazione del lavoro ha un suo asse centrale: il posto. È un sistema tolemaico ruotante intorno al rapporto di lavoro, dove si svolge il microcosmo del conflitto di classe, in nome di un principio di carattere generale secondo il quale il lavoratore è sempre il contraente più debole e come tale merita di essere tutelato al punto da non poter disporre liberamente dei suoi diritti, che sono quasi tutti inderogabili. Come se fosse un minus habens ope legis. La sicurezza sociale interviene a garantire la continuità del reddito, corollario del posto, durante il periodo dedicato al lavoro, con la cassa integrazione, l’indennità di malattia e le altre prestazioni a base contributiva, ma soprattutto al suo termine. Non a caso, infatti, il regime di previdenza obbligatoria non è ragguagliato, come avviene in altri paesi, ad assicurare, in particolari momenti, un reddito minimo essenziale alle esigenze di vita, bensì a conservare, anche oltre la soglia del pensionamento, il livello di reddito e il tenore di vita acquisito sul lavoro. La difesa del lavoro coincide con la difesa del posto. Anche a costo di inventarne di finti, di virtuali, di assistiti (…).
La storia della spesa sociale italiana da allora in poi è quella di un assetto che si è irrigidito sempre più, a fronte di una realtà sociale che, al contrario, non ha mai interrotto la propria evoluzione. Stretta fra la tendenza all’invecchiamento della popolazione e l’indisponibilità della generazione degli anni settanta ad accettare qualunque ipotesi di riforma del welfare che la costringesse a far posto a tavola alle generazioni successive, la spesa sociale è diventata sempre più spesa pensionistica, con l’inevitabile compressione delle risorse finanziarie dedicate ad alleviare altre condizioni di bisogno. Ne risulta una geografia della spesa sociale che ha smesso, da tempo, di aderire alla reale geografia del bisogno e che considera chi ha 58 anni, oppure 60 o 61, più debole, per il solo fatto di avere una determinata età, di chi vive in affitto in una grande città, oppure ha un lavoro precario, o magari il lavoro lo ha perso del tutto, o ancora di chi decide, da ragazza madre, di crescere un figlio. E magari tutte queste cose insieme.
Il potere di veto, e il modo in cui è stato esercitato in questi decenni, ha rivelato la natura profondamente egoista degli interessi che lo esercitano, graffiando via la doratura ideologica che la retorica dei diritti gli aveva dipinto attorno. E ci ha consegnato uno Stato sociale che riflette la società come uno specchio distorto riflette l’immagine di una persona. Ingiusto e inefficiente insieme, racconta di un mondo in cui il rischio e l’ambizione personale, per sé e per i propri figli, sono comportamenti da disincentivare, come l’individualismo responsabile che li muove.
Un eccesso di iniziativa personale rompe il fronte collettivo delle rivendicazioni e perciò chi la assume lo faccia pure, ma a suo rischio e pericolo: se si ammalerà, se perderà il lavoro, se non potrà permettersi una casa di proprietà, se avrà un figlio di troppo, dovrà cavarsela con le proprie forze. E l’unico premio, la sola tutela considerata meritevole di essere riconosciuta, rimane in fondo al percorso, in un pensionamento più precoce e a importi più elevati. Il problema sta nell’arrivarci incolumi, minimizzando i rischi e le velleità, con una distruzione di energie sociali, una compressione di ambizioni, una rinuncia ai propri sogni che sono, oggi, la vera, grande, incalcolabile, tragedia italiana.