Nelle relazioni industriali gli unici a dettare le regole sono i sindacati
23 Giugno 2011
Cercare l’intesa sulla riforma delle relazioni industriali è la mission dell’incontro fissato per venerdì tra Confindustria e Sindacati. L’appuntamento è un’occasione importante e, allo stesso tempo, insolita. Diversamente dal consueto, infatti, la politica c’entra poco: tutto è nelle mani di imprese e sindacati che possono, anzi devono, decidere le regole dei loro rapporti puntando a favorire la produttività, il reddito e l’occupazione. Come finirà? Bisogna sperare bene che finisca con l’intesa unitaria.
Le posizioni in campo tuttavia lasciano presagire il contrario, cioè con la Cgil che si tira fuori dal gioco, come al solito. I temi in discussione sono due: la rappresentanza sindacale e il valore degli accordi. Sul primo tema si tratta di stabilire le regole per determinare in che misura una certa sigla sindacale sia rappresentativa dei lavoratori e, su questo, sembrerebbe possibile la convergenza delle posizioni. Il secondo tema, invece, è più intricato e attuale per via delle vicende giudiziali della Fiat. Riguarda la fissazione dell’ordine di validità degli accordi nei loro tre tradizionali livelli: nazionale, territoriale e aziendale. L’attenzione è tutta concentrata sulla cosiddetta "esigibilità" del contratto aziendale: la possibilità cioè di disapplicare (uscire da = opting out) il contratto nazionale per riferirsi esclusivamente a quello aziendale (come è successo alla Fiat di Pomigliano e Mirafiori ma finiti in un’aula di Tribunale).
Si dice, abitualmente, che in democrazia valgono i numeri. Con questo ci si riferisce a un principio fondamentale (e democratico) in base al quale la maggioranza decide e la minoranza è tenuta ad adeguarsi (lo stabilisce, peraltro, anche la Costituzione). Stessa regola – perché no? – dovrebbe valere anche per i rapporti tra sindacati e imprese: e invece non è così. Infatti, nel vigente sistema delle relazioni industriali non vale la regola dei numeri. Non vale perché è da oltre sessant’anni che si attende, e mai arriva, l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione che riguarda la disciplina delle organizzazioni sindacali. In mancanza di regole, in tutti questi anni le decisioni sono state prese con "unitaria" volontà delle principali sigle sindacali, ossia con intese unanimi della Triplice (Cgil, Cisl e Uil). Spesso, poi, le decisioni sono state figlie degeneri di una combutta con il potere politico, partorite cioè con il metodo della concertazione.
Da tempo, tuttavia, si avverte che il sistema scricchiola, destinato così a crollare prima o poi. Con la vicenda Fiat, questa precarietà si è fatta molto più evidente, imponendosi prepotentemente come questione urgente da risolvere, complici il clima di stagnazione economica (la perdurante crisi) e la bassa attrazione che la nostra economia esercita sugli investitori esteri. Esempio, appunto, è l’accordo Fiat di Pomigliano: nonostante contemplasse la clausola di opting out dal contratto nazionale e nonostante fosse stato approvato dalla maggioranza dei lavoratori, alla fine è comunque approdato in un’aula di Tribunale scaraventando in un clima di incertezza la Fiat con i relativi posti di lavoro: è bastato il no della piccolissima Fiom a scatenare il putiferio.
La Confindustria, promotrice dell’incontro, conta di raggiungere un’intesa comune con i Sindacati. Ancora ieri, Emma Marcegaglia ha lanciato gli ultimi messaggi di apertura al dialogo affermando che l’associazione da lei presieduta si presenterà al tavolo delle trattative "molto aperta e senza preclusioni", ponendo l’obiettivo di un accordo unitario nella consapevolezza di una reale necessità "di aumentare la produttività, unica strada per accrescere anche i salari".
Ieri è stato pure il giorno delle dichiarazioni della Cgil. Nella conferenza stampa, il leader rosso, Susanna Camusso, ha indicato le posizioni e le condizioni per il raggiungimento dell’accordo. Due i presupposti. Il primo è procedurale: per la Camusso vanno prima fissati i "paletti" e le regole sulla rappresentatività, poi si potrà discutere sulla validità dei contratti. "Siamo disponibili ad affrontare la discussione sui contratti", ha detto il numero uno della Cgil, "un minuto dopo la definizione di una norma generale sulla rappresentanza". "E’ questo il presupposto", ha spiegato, "per ottenere la validità erga omnes dei contratti". Il secondo presupposto è stato riassunto dalla Camusso in un "dover applicare la Costituzione".
In breve le condizioni della Cgil sono queste. Sulla rappresentanza deve valere lo stesso criterio vigente per il settore pubblico: i dati sulle deleghe vanno raccolti dai datori di lavoro tramite le denunce contributive mensili dovute all’Inps; a questi vanno aggiunti i dati sui consensi ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) e il tutto va trasmesso al Cnel, individuato come organo certificatore. Sulla validità dei contratti la posizione della Cgil è per una inderogabile validità del contratto nazionale: questi contratti hanno valenza erga omnes, ha spiegato la Camusso, sulla base della rappresentanza sindacale. Pertanto, ha concluso il leader della Cgil, spetta a tali contratti autorizzare quelli di rango inferiore, senza alcuna possibilità per i contratti aziendali di essere sostitutivi di quelli nazionali.
Con questi presupposti sembra chiaro che c’è poco spazio di agire per trovare un’intesa comune su entrambi i temi all’ordine dell’giorno: possibile sulla rappresentanza, difficile sulla contrattazione. La Cgil è troppo influenzata dalle ideologie del Novecento, per dirla con le parole del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Infatti, piuttosto che accettare la sfida riformista, rivendicando piena ed assoluta autonomia decisionale nei rapporti con le imprese, preferisce barricarsi dietro la solita farsa dell’indissolubilità dei principi costituzionali. Un assurdo e invecchiato espediente che, come finora è successo, lascerà ancora una volta il potere decisionale nelle mani dei giudici che, con "sentenze creative", continueranno a guidare la mano del legislatore.