Nell’estate dell’83 mia cugina era innamorata persa di Michael Jackson
28 Giugno 2009
Ogni volta che muore una celebrità conservo il ricordo di quando sono venuta a saperlo e dopo un po’ mi torna in mente con tutti i particolari. Devo dire che questa cosa mi sembra sempre un po’ strana.
Ricordo almeno tre di queste morti appariscenti. Marlon Brando, all’inizio di un’estate. Lavoravo in un bar vicino al mare e mi venne su qualche lacrima. Poi Giovanni Paolo II – ed eravamo di nuovo in un pub tutti con il muso per aria, guardando in alto verso lo schermo – quando realizzammo che “anche il Papa muore” non è solo un proverbio.
Poi l’altra sera, quando ho saputo della morte di Michael Jackson. Ero (come sempre) in un bar del centro ma, cosa strana, sui plasma non scorrevano le solite immagini di MTV bensì solo i video di Jacko, attillato e un po’ sintetico, a volte bianco a volte nero, magro e snodabile, una specie di Celentano delle Americhe. Cantava tutto inguantato e metallico mentre mi scolavo un Negroni, il secondo della serata, credo, ma se devo essere proprio sincera forse mi sono fatta qualche goccio in più. Che Jackson fosse morto l’ho capito solo quando ho visto i volti e le espressioni di quelli che erano seduti accanto a me. Così ho mandato a mente quel momento.
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“Quant’è brutto!”, pensai la prima volta che lo vidi. Dovevo avere 14 anni. Michael era un poster appeso in camera di Elisa, una cugina “estiva” di quelle che vedi solo qualche settimana all’anno durante le vacanze. I poster si assomigliavano tutti: capelli ricci e neri, muso piccolo e occhi spiritati. Si assomigliavano così tanto che per un attimo pensai di aver trovato un nuovo cuginetto “estivo”.
Elisa iniziò a spiegarmi che Michael Jackson era “il re della musica pop” ma dubito che comprendesse realmente ciò che stava dicendo. La parola “pop” mi piaceva e la appuntai nel mio archivio mentale (e che archivio), per ripescarla e chiarirne il senso un paio d’anni dopo. Quell’estate infatti non ero ancora in grado di capirla fino in fondo. Quando avevo tra 14 e 16 anni su Jackson fiorivano una mare di pettegolezzi. Mi sembrava una storia triste. Raccontavano che si volesse sbiancare la faccia perché aveva tradito il popolo nero, che il suo naso a furia di operazioni era diventato troppo squadrato, che non mangiasse abbastanza per sopravvivere e altre cose del genere.
Come faceva Elisa a dormire con quei poster tanto brutti nella sua stanza? Jackson era un uomo che si stava smontando pezzo per pezzo. In un modo teatrale, preparava un’uscita di scena da grande rock star. Ma la stava tirando per le lunghe e così la sua faccia si era ridotta a una maschera di cartapesta, che lo rendeva un po’ maschio e un po’ femmina, e bianco bianco bianco scontornato, lasciando autonomia solo alle pupille. Si stava sgretolando come il mondo attorno a lui. E non restava che l’apparenza.
“And Mother Always Told Me Be Careful Of Who You Love / And Be Careful Of What You Do ‘Cause The Lie Becomes The Truth”.
Quella “bugia” ormai era la sua realtà. Sentivo il dovere di difenderlo perché mi sembrava una persona fragile, così l’anno dopo mi presentai da Elisa con Invincible, il primo e unico cd di Jackson che abbia mai comprato in vita mia. Ero tutta in fregola, pronta a ballare, a cantare, a imparare a memoria i testi delle canzoni. Ma Elisa, che su Michael la sapeva molto più lunga di me, iniziò a sbuffare annoiata. Si era infastidita di dividere l’idolo dei suoi sogni con qualcun altro, che non era neppure la sua migliore amica ma una semplice cugina estiva.
Poi arrivò You Tube e mi ci attaccai come fosse un distributore di caramelle. “I Said Don’t Mind, But What Do You Mean I Am The One / Who Will Dance On The Floor In The Round / She Said I Am The One Who Will Dance On The Floor In The Round”. E nel video di Billie Jean, che poi era un lungometraggio più che un clip, lui si consumava le suole col moonwalk. Lo guardavamo tutti ammirati, chi per farsi due risate, chi per emularlo. Anch’io mi mettevo davanti al computer copiando i suoi movimenti, cercando di capire quale fosse il magico meccanismo per cui appariva così morbido.
Ma lo facevo rigorosamente da sola visto che ormai Elisa non sopportava quella smania di farsi sempre più bianco, l’accumulare bambini a Neverland che a me sembrava un’opera buona ma gli altri dicevano era pedofilia. Un giorno tentò di convincermi che Jackson si drogava, sniffava cocaina e assumeva medicinali. Ma Elisa è sempre stata una persona grossolana, io lo so, non capirà mai cos’è una malattia mentale. Lei crede davvero che sottoporsi a una cura di psicofarmaci sia come prendersi una pasticca in discoteca.
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L’altra sera stavo bevendo il Negroni nel solito bar mentre Michael moriva a Los Angeles. Non so più che fine abbia fatto Elisa ma credo che, dovunque sia finita, ora sta rispolverando tutti i suoi ricordi su Jackson. A inventare e ricamarci su un amore infinito perché in fondo va a finire sempre così, si crocifigge prima per beatificare poi. E’ successo per Michael, succederà per tutti gli altri.
A me non importa tanto che sia morto, non ho da ricamarci molto, non è stato l’amore della mia adolescenza e, dopo tutto, ho comprato solo uno dei 400 milioni di dischi che ha venduto. Al quinto Negroni sono tornata a casa e ho cercato il video di Billie Jean su You Tube. Ho guardato Michael che ballava e l’ho fatto anch’io, piangendo un po’, come quella volta che morì Marlon Brando.
Margherita Macrì è nata a Castrignano dei Greci (Lecce) nel