Nell’Europa di domani l’Italia non può restare alla finestra

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Nell’Europa di domani l’Italia non può restare alla finestra

03 Maggio 2017

Europa: per decenni per noi italiani questa parola ha significato ben poco. Più o meno il nome di un continente del quale siamo parte. Talvolta un insieme di nazioni nel quale fare un po’ di vacanze, una serie di nazionali calcisticamente concorrenziali con la nostra, un sistema di istituzioni avvertite come lontane, poco importanti e influenti. Tanto è vero che i candidati di tutti i partiti italiani per le elezioni europee erano spesso politici a fine corsa, interpretando la presenza nel parlamento continentale come scarsamente rilevante. Se ci chiedevano per strada se eravamo “europeisti” avremmo, nella stragrande maggioranza dei casi, dichiarato di sì. 

Questo fino a qualche anno fa. Con la crisi del 2008 la nostra percezione dell’Europa è mutata a 180 gradi: l’Europa, l’euro, l’euroburocrazia e alcuni paesi che come noi la formano sono diventati la causa di gran parte dei mali che ci affliggono. In primis l’”odiata Germania”. In questo tutta la politica nazionale ha, più o meno, fatto fronte comune nell’indicare all’opinione pubblica italiana il “colpevole perfetto”: la Germania con il suo Cancelliere Angela Merkel. Di certo, non saremo noi a negarlo, il processo di integrazione europea, l’euroburocrazia e l’entrata in scena dell’euro, senza adeguati riferimenti politici, hanno prodotto, nei metodi e nel merito, una serie di falle che hanno contribuito alla non eccezionale condizione che stiamo vivendo. 

L’euro, ad esempio, è una moneta che doveva essere preceduta da una maggiore integrazione politica e da una più marcata democratizzazione delle più importanti istituzioni europee. Senza poi contare la necessità di istituire contestualmente alla moneta unica un prestatore di ultima istanza. Decisioni che avrebbero di sicuro aiutato, specie in un momento di grande crisi. Ma, al di là di queste considerazioni, all’origine delle difficili condizioni economiche di alcuni paesi europei ci sono gli stessi paesi in questione. O perché incapaci di presenziare con scrupolo e qualità le istituzioni europee e, quindi, da queste non aver saputo trarre quei benefici che invece hanno lucrato nazioni più attente e serie, o per atavici ritardi strutturali, dimostrando inadeguatezza a raccogliere le sfide che pongono i tempi attuali. 

Addirittura, in alcuni casi, il rifiuto a trovare soluzioni adeguate ha trovato “giustificazione” nel deficit di credibilità accumulato in questi anni da alcuni paesi, specie dell’area mediterranea. Bilanci falsati, promesse non mantenute. D‘altra parte non è facilissimo spiegare perché al di sopra delle Alpi l’euro abbia una sua positività con nazioni che comunque crescono e, al di sotto, sia la causa di ogni male. 

Qualcosa non torna, al netto delle reali colpe di euro, Germania ed Europa. Insomma, se è vero che l’intera Europa ha aiutato i tedeschi a metabolizzare una Germania orientale a pezzi, come giustifichiamo il nostro continuo blaterare di “questione meridionale” senza alcuna soluzione dal 1870 con le valanghe di risorse bruciate nel nostro Mezzogiorno? Non sarà forse il caso, prima di lavarci la coscienza con facili capri espiatori, di vedere le tante, troppe cose che stanno avviando il nostro paese sulla strada di un declino irreversibile? Infatti, se è vero che l’Europa o si darà una forte dimensione politica o sarà destinata ad evaporare, perlomeno nella forma che conosciamo oggi, è altrettanto vero che chi cita la Brexit e altre amenità simili dovrebbe, al netto di ciò che realmente comporterà, fare una serie di importanti considerazioni.

Il Regno Unito è sempre stato con un piede dentro e uno fuori dall’Europa, come da loro consolidata tradizione (vedi la sterlina e altre numerose deroghe che riguardavano il mondo Britannico). Cosa altrettanto importante, il Regno Unito può contare su un proprio livello di internazionalizzazione che deriva dai tanti paesi che formano il Commonwealth. Senza poi citare lo storico rapporto con gli USA. 

Lo stesso tipo di “asset strategico” lo hanno i Francesi nell’Africa sub sahariana, i tedeschi nell’est e nord Europa e gli Spagnoli negli innumerevoli paesi di lingua madre. Chi rimane scoperto? Non ci vuole molto ad intuirlo, siamo noi. Il Mediterraneo e quell’area che va dal Medio Oriente al Nord Africa dovrebbero rappresentare uno dei nostri sbocchi naturali, ma siamo in grado come popolo e istituzioni italiane di sviluppare una politica forte in questo quadrante? 

Proviamo per un attimo a immaginare come il nostro sud potrebbe rappresentarsi come network di riferimento a tutti i livelli per questo enorme quadrante territoriale. Network industriale, infrastrutturale, di ricerca, di trasformazione di materie prime, comunque di interazione positiva, per noi e per loro. Questi gli interrogativi e le sfide a cui dovremmo essere pronti a rispondere. O veramente pensiamo che l’Italia si possa sostenere con la sagra della pizzica e le risorse derivanti dalle visite del Colosseo? Asset importantissimi e che possono dare molto, come pure le nostre specificità agricolo gastronomiche, ma l’Italia non è Cuba e neanche il Nicaragua. Peraltro basterebbe vedere in quali settori la robotica eliminerà nel prossimo futuro più posti di lavoro per capire come sia urgente ragionare seriamente su un futuro che va interpretato con letture nuove.

Smettiamola con questi paragoni da collettivi degli anni 70. L’Europa, come noi oggi la conosciamo, nasce dall’idea, dopo secoli di sanguinosissime mattanze, di smussare le cause di guerre e conflitti intorno a un mercato comune. Parliamo degli anni subito dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, mentre il mondo intero si leccava le ferite di un conflitto che aveva provocato decine di milioni di morti, terminato con il lancio di due bombe atomiche sulle città del Giappone.

Un mercato comune, per avviare un periodo di scambi, conoscenza e avvicinamento progressivo fra popoli che per secoli si erano combattuti e odiati. E in fondo i decenni senza guerre, con l’eccezione dei Balcani, sono stati un dato di fatto di cui tutta l’Europa occidentale ha beneficiato. Terrorismo, conflitti sociali e altre “guerre minori” hanno punteggiato il nostro vivere dal 1945, ma nulla a che vedere con i conflitti mondiali dei primi 40 anni del Novecento.

Un equilibrio che viene rapidamente travolto dalla caduta del muro di Berlino, dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e del suo sistema di vassallaggio sull’Europa orientale. Il 1989 è la data che apre le porte ad un mondo nuovo, rispetto al quale qualcuno parlò, addirittura, di fine della storia, perché il sistema capitalista, le democrazie occidentali sembravano il modello di società vincente a cui, progressivamente, ogni nazione del mondo si sarebbe dovuta adeguare. 

Ma, tornando all’Europa, l’euro, inutile negarlo, fu il tentativo dei paesi dell’Europa occidentale di imbrigliare il risorto, riunificato e sempre temuto gigante tedesco. L’euro rappresentò il tentativo di evitare che il marco divenisse la moneta guida dell’intera Europa. Euro che, è bene ricordarlo, fu dall’inizio osteggiato dagli americani, timorosi che la valuta europea potesse divenire un pericoloso competitor del ruolo mondiale del dollaro…. e dagli inglesi….come sempre europei a condizione….che l’Europa non si faccia mai. 

L’Italia, insieme alla Germania protagonista della riunificazione, è stato il paese, di quelli occidentali, a subire in quegli anni lo sconvolgimento più profondo. La fine della democrazia bloccata e di quasi tutti i protagonisti politici, partiti e personalità, di 50 anni di storia. La storia della Repubblica italiana nata dalla Resistenza e funzionale a un equilibrio che non esisteva più. 

Ma se stare dentro un contesto nuovo può essere condizione indipendente, almeno in parte, dalla nostra volontà, sicuramente la nostra lettura di questa “novità” non è stata altrettanto veloce, capace di coglierne insidie e opportunità. Troppo forte il nostro ritardo, specie di carattere culturale. Oggi chi parla di sovranità nazionale dimentica che, in realtà, per 50 anni siamo stati un paese a limitata sovranità nazionale, che alcune forme di devoluzione, verso l’alto e verso il basso, hanno indubbiamente indebolito lo stato nazionale, mentre i processi di globalizzazione hanno aumentato l’interdipendenza in un mondo dove i confini geografici sono sempre più bypassati da infrastrutture, materiali e immateriali, che si fanno beffe di ogni separazione geografica e politica. 

Una globalizzazione che con l’entrata della Cina nel WTO ha subito una ulteriore accelerazione, imponendo dumping che sono ulteriormente ricaduti sulle nostre economie. Una Cina che, mentre ancora noi parliamo di TAV e corridoi tirrenici, vara un piano di infrastrutturazione dell’Asia e posiziona i suoi terminali operativi in Europa a Berlino e a Londra. Come troppo spesso, ad esempio, dimentichiamo il nostro fortissimo gap energetico che suona come quello di un essere umano senza capacità di sostentamento autonomo. Questo per dire che, al netto della fascinazione di alcune affermazioni, bisogna essere coscienti fino in fondo di ciò che esse possano significare.

Se si sceglie per il “sistema paese” un profilo forte, bisogna essere in grado di sostenerlo, pena la scarsa credibilità, la quale, in ambito internazionale, è cosa importantissima. Altro esempio, altra domanda senza pretesa di affermare verità apodittiche, siamo un grande paese esportatore, siamo sicuri ci convenga una politica di dazi? Siamo certi che applicando dazi non riceveremo analogo trattamento per i nostri prodotti? L’impressione è che alcune derive rispondano più alla tentazione di cedere a ricette di facile comprensione che a soluzioni mirate, ignorando che nella realtà ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

In sintesi, non discutiamo il profilo di una Italia forte ma sul come renderla tale. Riteniamo che l’alternativa a questa necessaria capacità sia la marginalità e tutto questo avrebbe forza e prospettiva ancora maggiori se supportato e inserito in un contesto continentale altrettanto forte, l’unico che può garantire quella “massa critica” nei diversi ambiti, in grado di reggere il confronto con la concorrenza degli Stati Continente (USA, Russia, Cina, India etc etc). Perché vogliamo sperare che a questo livello non si pensi che esista un qualche buon samaritano, di qualsiasi nazionalità esso sia. 

L’Europa, come l’Italia, se uscisse dal trauma dei conflitti mondiali potrebbe fornire molte delle risposte che oggi attendono di essere evase in paesi che rischiano di divenire l’orrore, il dramma, la tragedia della porta accanto. Situazioni che se lasciate alla deriva non potranno che provocare tragedie anche per noi. I processi di globalizzazione, in questo senso, dovrebbero averci insegnato qualcosa. Non è mai esistito, tantomeno oggi, un mondo a compartimenti stagni. Di più. Quanto sopra affermato dovrebbe farci capire che ciò che stiamo vivendo può essere, nel tempo, tragedia oppure opportunità per tutti. Dipende in massima parte da noi. Siamo consapevoli che non esistono scelte facili ed è per questo che diffidiamo degli slogan e delle scelte “a metà”, quelle che lasciano in mezzo al guado. 

Ci rendiamo perfettamente conto che le partite in gioco non sono il Risiko, ma allora l’alternativa non può essere stare alla finestra aspettando solo quando tutto questo ci arriverà addosso con una violenza inaudita. Non saranno né l’accoglienza indiscriminata né fantomatici muri a salvarci da situazioni che stanno destinando territori enormi al caos, con curve demografiche in costante crescita, senza alcuna prospettiva, e che possono con una semplice parabola vedere il mondo occidentale o come un potenziale Eden o come il giardino decadente di Satana. 

Prima saremo coscienti di tutto ciò e meglio sarà per tutti. E quindi, come recita il famoso detto africano sulla prima cosa da fare quando ci si sveglia, corriamo a realizzare un’Italia forte, cosciente dei suoi asset strategici, capace di costruire poco alla volta un “sistema paese” in grado di avere una prospettiva, cercando, sempre, di essere consequenziali e coerenti con le parole d’ordine che si intendono perseguire, perché, come già detto, la credibilità fra gli uomini come fra le nazioni è uno di quei fattori che fanno la differenza. Gli slogan, senza un pensiero serio dietro e le visioni del mondo da “paese dei balocchi”, possono solo essere l’anticamera di un disastro annunciato, e a quel punto poco importa che tu sia un leone o una gazzella il tuo destino è già segnato.