Nello Zimbabwe è ora di un “regime change”

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Nello Zimbabwe è ora di un “regime change”

30 Giugno 2008

Non capita tutti i giorni che si svolga un ballottaggio con un unico candidato. È successo in Zimbabwe il 27 giugno, dopo la rinuncia a parteciparvi di Morgan Tsvangirai, il leader dell’opposizione uscito vittorioso, ma con una maggioranza relativa, al primo turno delle elezioni presidenziali del 29 marzo. Con la sua decisione Tsvangirai è riuscito infatti ad attirare l’attenzione internazionale sul clima di violenza e di intimidazione che rendeva impossibile ai suoi connazionali andare alle urne in libertà, ma non a impedire al suo avversario, il presidente in carica Robert Mugabe, di aprire ugualmente i seggi la mattina del 27 giugno, costringere la popolazione a votare, farsi proclamare vincitore dalla Commissione elettorale dopo un rapido spoglio delle schede, vantando un trionfale 85% di preferenze, e infine prestare giuramento per un nuovo mandato il 29 giugno, in tempo per partire da presidente “democraticamente eletto” alla volta di Sharm el Sheikh, la località egiziana sul Mar Rosso dove è in corso il vertice annuale dell’Unione Africana.

È proprio all’Unione Africana che dovrebbero toccare adesso le prossime mosse. L’organismo, almeno sulla carta, ha facoltà e mezzi per gestire situazioni del genere ed è sicuramente il primo e principale organismo deputato a farlo. Il suo statuto prevedere che non siano ammessi a farne parte gli stati governati da leader che hanno violato le regole democratiche e che possa intervenire con i suoi “caschi verdi” là dove lo ritenga utile a risolvere crisi interne che minaccino democrazia e diritti umani. Lo ha fatto a marzo alle Isole Comore, inviando un contingente militare che ha messo in fuga Mohamed Bacar, il presidente dell’isola di Anjouan giudicato illegittimo dal governo federale dell’arcipelago per aver ottenuto il rinnovo del proprio mandato presidenziale lo scorso anno violando le procedure elettorali. Inoltre nel 2007 l’Unione Africana ha inviato una missione militare in Somalia e da quattro anni è operativa una sua missione in Darfur, Sudan, ora in collaborazione i caschi blu delle Nazioni Unite. Ma si tratta di situazioni in cui la sua presenza è stata sollecitata o almeno autorizzata dai governi in carica.

In effetti richieste di azioni militari – e non soltanto in nome delle regole democratiche violate, ma anche per soccorrere urgentemente la popolazione zimbabwana ridotta in miseria ed evitare una catastrofe umanitaria di proporzioni che si prevedono enormi – sono già state avanzate dal vescovo sudafricano e premio Nobel per la pace 1984, Desmond Tutu, e dal vice presidente del Kenya, Raila Odinga. Ma l’Unione Africana sembra piuttosto disposta a favorire l’avvio di un negoziato e in realtà non è neanche detto che si impegni a fondo in tal senso. Il punto dolente è che i colleghi di Mugabe per la maggior parte non brillano certo per dedizione alla causa democratica. Il presidente dell’Uganda Yoweri Museveni, ad esempio, e con lui Idriss Déby, in Ciad, e Paul Biya, in Camerun, hanno preteso e ottenuto modifiche costituzionali grazie alla quali ora possono ricandidarsi a oltranza alla massima carica senza il limite dei due mandati precedentemente previsto proprio per evitare che ciò accadesse. Altri leader, non ostacolati dalla costituzione, sono al potere da decenni: il più longevo al momento è Omar Bongo, presidente del Gabon ormai da 41 anni, seguito da Muhammar Gheddafi, Libia, al potere dal 1969. Poi ci sono le dittature neanche dissimulate, come quella di Isaias Afewerki in Eritrea, e le “dinastie”, come in Togo e nella Repubblica Democratica del Congo, i cui leader, rispettivamente Faure Eyadema e Joseph Kabila, hanno ereditato la carica dai padri che a loro volta l’avevano conquistata con la forza.

Ma neanche i leader africani più credibili e accreditati sul piano internazionale garantiscono sempre una posizione intransigente quando i loro colleghi sono in difficoltà, come ha dimostrato il presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki, ostinato nel minimizzare per mesi l’entità della crisi in corso in Zimbabwe: come si ricorderà, l’aveva definita “un normale processo post elettorale”.