Nessun paragone tra Vietnam e Iraq

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Nessun paragone tra Vietnam e Iraq

19 Settembre 2007

In questi giorni si è approfondita su l’Occidentale la
questione riguardante il paragone tra Iraq e Vietnam, che è stato invocato in
numerose occasioni dalla stampa internazionale sin dalle prime avvisaglie di
difficoltà nella guerra contro il terrorismo, da numerosi esponenti del mondo
politico americano e – curiosamente – dallo stesso presidente George W. Bush,
in occasione dell’incontro con i veterani di guerra statunitensi lo scorso 22 agosto.
Lungi dall’accostare l’Iraq al Vietnam al fine di prospettare al suo popolo un’imminente
sconfitta, Bush ha ricordato il tristemente noto conflitto nel sudest asiatico
per infondere nuovo vigore ai soldati statunitensi che combattono in Medio
Oriente. Il presidente ha difatti argomentato che una disfatta a Baghdad è da
evitare ad ogni costo, altrimenti – come accadde appunto per il Vietnam – la
guerra lascerebbe un marchio indelebile sugli americani, non solo diffondendo
il pessimismo e la paura all’interno del paese e tra gli alleati degli Stati
Uniti, bensì rafforzando pericolosamente i nemici dell’Occidente.

D’altro canto, in un articolo apparso originariamente sul Foglio,
il giornalista Carlo Panella ha sostenuto il fallimento della formula americana
di nation building adottata a Saigon,
paragonandola alla strategia degli Usa a Baghdad – anche se quest’ultima in
realtà viene descritta con toni piuttosto foschi e sviluppi unicamente
negativi. Anche Leonardo Tirabassi ha scritto su l’Occidentale che l’Iraq è un
fallimento politico, oltre che militare, data l’incapacità americana di gestire
una guerra asimmetrica contro l’insorgenza e l’inefficacia dello state building; inoltre, il disastro
umanitario e la minaccia ai fragili equilibri mediorientali vengono paventati
dagli USA – così come accadde per il Vietnam – per insistere sulla necessità di
proseguire una missione il cui tracollo è evidente ad ogni osservatore.

Uno dei chiarimenti più illuminanti sulle modalità di
intendere il supposto paragone tra due dei conflitti sinora rivelatisi tra i
più amari per gli americani, paragone che come l’erba cattiva non esita a
spuntare nei luoghi più disparati nonostante venga sistematicamente ed
alacremente estirpato da molti studiosi, giunge da Christopher Hitchens. Il
notissimo e provocatorio autore, giornalista e critico letterario
anglo-americano scrive dalle pagine dell’Observer che, nonostante la propria
dichiarata avversione per Bush e per all
things Republican
, la guerra in Iraq per deporre Saddam Hussein ed
eliminare il suo regime dispotico è stata una decisione saggia. Ciononostante –
anzi forse proprio per questo – il paragone tra Iraq e Vietnam non regge.

Ora, allo stesso modo posso affermare che nonostante trovi
Hitchens volutamente (e quindi a volte eccessivamente) polemico e così antireligioso
da rasentare il fanatismo, in merito alla questione delle eventuali affinità
tra la guerra in Iraq e Vietnam il giornalista ha ragione. Le differenze che
Hitchens rileva tra i due conflitti sono importanti: in primo luogo, nota il
giornalista, il Vietnam non costituiva un pericolo per il mondo: non aveva armi
biologiche o chimiche di distruzione di massa, anzi semmai ne fu vittima; non
aveva mai minacciato né invaso un’altra nazione; non sponsorizzava né
appoggiava attività terroristiche al di fuori dei propri confini. È noto invece
che l’Iraq si è macchiato di ognuno di questi crimini, venendo per essi
duramente ed unanimemente condannato dalla comunità internazionale.

Un’ulteriore differenza tra i due paesi, nota correttamente
Hitchens, riguarda lo ius in bello
(le regole di guerra che sanciscono come è permesso agire durante un
conflitto): in Iraq i militari statunitensi hanno considerato inaccettabili gli
spietati metodi di combattimento del search-and-destroy
e del body count, nonché l’impiego di agenti chimici come il
napalm, che in Vietnam colpivano indiscriminatamente soldati e civili. La
tattica della guerra indiscriminata, ricorda Hitchens, è impiegata a Baghdad
dalle guerriglie dei despoti locali e dall’estremismo islamico, non dagli americani.
Allo stesso modo, episodi di violenza contro la popolazione si verificavano
copiosamente in Vietnam causa lo stress, le difficili condizioni di
combattimento e una diffusa percezione di impunibilità, e culminarono nel tristemente
noto massacro di My Lai; simili eventi sono stati rari in Iraq, e soprattutto
hanno meritato esemplari quanto rapide sanzioni – come nel caso della condanna
ai soldati della prestigiosa 101/a divisione aviotrasportata per lo stupro e
l’omicidio di Abeer Qassim Hamza al Janabi e della sua famiglia.

Inoltre, prosegue il giornalista, è opportuno ricordare che
la “vera” guerra dei vietnamiti fu quella per l’indipendenza dal colonialismo
francese, conclusasi nel 1954 con la vittoria di Dien Bien Phu. La partizione
lungo il 17° parallelo fu imposta dalla Conferenza di Ginevra: l’America
combatté per mantenere un governo filo-occidentale e anticomunista nella parte
meridionale del paese, avversato sia nel sud dai Vietcong che a nord dall’esercito
popolare nordvietnamita – e dunque a prescindere dalla volontà nazionale del
paese. Per quanto anche i confini dell’Iraq siano in parte artificiali – solo
in parte, a meno che non si vogliano ignorare il Tigri e l’Eufrate -, all’arrivo
degli americani e delle loro promesse di rispetto e tutela delle etnie, la
nazione irachena era disposta a restare unita. I separatisti curdi, che fino a
quel momento avevano chiesto il cessare dell’oppressione e del genocidio contro
la propria minoranza, sono stati ascoltati dagli Usa e dai loro alleati – e non
combattuti – e sembrano per ora aver accantonato la pretesa di un Kurdistan indipendente.

In Vietnam, lo stesso presidente Eisenhower ammise che se i
principi di autodeterminazione nazionale e di democrazia fossero stati
applicati, concedendo al paese elezioni libere, Ho Chi Minh avrebbe certamente
vinto: per gli americani tuttavia non era possibile permettere ad un paese di%0D
scegliere il comunismo, e per questo nozioni come la libertà e la democrazia di
un popolo furono calpestate. In Iraq invece sono stati gli americani a far sì
che potessero svolgersi elezioni libere a suffragio universale, alle quali il potere
del partito Baath – fedele a Saddam – non sarebbe mai sopravissuto; lo dimostra
il suo rifiuto di partecipare alle elezioni del 30 gennaio 2005, i feroci
tentativi di sabotaggio ed intimidazione politica dei suoi attivisti, e la loro
condanna della democrazia in quanto fonte di “corruzione dei popoli”.

Queste le più salienti differenze rilevate da Christopher
Hitchens tra la guerra in Vietnam ed il conflitto che si sta svolgendo oggi in
Iraq, in virtù dei quali il giornalista si oppone con veemenza al paragone, che
definisce improduttivo e storicamente inaccurato. Panella e Tirabassi invece
approvano il ricorso all’esempio del Vietnam per argomentare un concetto
importante: la strategia di state
building
, o nation building, non
funziona in Iraq, così come non funzionò a Saigon, per cui non è opportuno
ricorrervi – in nessun caso. A tale argomentazione, un ipotetico studioso
neoconservatore replicherebbe che gli esempi della Germania e del Giappone dopo
la Seconda guerra mondiale dimostrano il contrario: ovvero, che regime change e state building possono venire applicati con successo, e dunque il disastro
del Vietnam non costituisce una base solida per negarne l’impiego.

Al di là del dibattito su meriti e mancanze dello state building, l’approccio di Hitchens è interessante: il giornalista sottoscrive
con convinzione il fallimento del Vietnam, ma reputa legittima la guerra in
Iraq e ne vede scaturire sviluppi positivi nel corso del processo di
democratizzazione. Per questo, Hitchens osserva ironicamente che il partito
Repubblicano non deve perdere tempo in “nostalgiche ricapitolazioni di quelli
che furono i foschi proventi del colonialismo francese in Indocina”: è meglio piuttosto
che investa forze ed energie nella lotta contro il “fascismo teocratico” in
Medio Oriente, cominciando da Baghdad. Ed ancora una volta, in riluttante
accordo con Hitchens, non posso che condividere le sue ragioni.