Nessuno crede alla tregua interna (e ostentata) del Pd

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Nessuno crede alla tregua interna (e ostentata) del Pd

24 Maggio 2010

Nessuna resa dei conti ma anche nessun definitivo chiarimento. Piuttosto una tregua ostentata, a uso e consumo della pubblica opinione. E’ questa l’immagine che il Partito Democratico sceglie di fornire di sé alla vigilia di una manovra economica che certo non potrà essere indolore e potrà, almeno sulla carta, aprire qualche spazio di agibilità politica alla formazione di Via del Nazareno.

La riunione è quasi un minuetto, una celebrazione scaccia-polemiche interne: Franceschini loda Bersani, D’Alema loda Franceschini, Bersani blandisce e ringrazia. Nessuno critica nessuno. I “tafazzismi” sono banditi. L’unica eccezione è per Pietro Ichino che sul lavoro chiede più coraggio e l’adozione del contratto unico e viene punzecchiato da Franco Marini.

Se l’atmosfera rarefatta non viene violata da alcun pasdaran, qualche segnale in controtendenza arriva qualche ora dopo. Domenica sera scende in campo Walter Veltroni, rimasto silenzioso in platea durante l’assemblea. Sceglie gli studi televisivi di “Che tempo che fa” per far cadere qualche goccia di polemica nel mare per una volta apparentemente calmo del partito. “Ci vuole più coraggio, il centrosinistra deve sapere indicare una prospettiva che affronti i “nodi” della storia italiana che si sono incancreniti anche perché la sinistra non ha saputo affrontarli, facendo coalizioni che mettevano insieme tutto e il contrario di tutto. Invece dobbiamo dire basta alle alleanza-accozzaglia”.

L’unità, insomma, riguarda la linea politica a breve, ciò su cui tutti si sono ritrovati senza grandi sforzi, ad esempio la linea dura sul ddl intercettazioni, la richiesta rivolta al governo di mostrare le carte e i costi del federalismo fiscale, o la disponibilità a far parte di un governo tecnico in caso di emergenza. Una piattaforma sostanzialmente difensiva, dunque.

Ma i problemi restano sul tappeto. Bersani, certo, porta a casa sei documenti su Lavoro (l’unico su cui non c’è stata unanimità perché l’area Marino, Ichino in testa, si è astenuta), Giustizia, Europa, Università, Green Economy e Riforme istituzionali che, spiega, “saranno gli strumenti che diamo al Pd per aprire il confronto con la società”. Ma i grandi nodi restano irrisolti.

Se Pierferdinando Casini si smarca e si allontana dal Pd, la tolda di comando del partito sotto traccia continua a interrogarsi sul futuro. Spiega dal palco il veltroniano Tonini: “Bersani non è in discussione”, ma per quanto riguarda il candidato premier “quando sarà il momento saranno i fatti e la politica a dirci cosa fare”. La ritrovata unità, insomma, appare fragile, tant’è che lo stesso Bersani ironizza: “Ora vado una settimana in Cina, non facciamo che quando torno…”.

Quel che è certo è che il rinnovato protagonismo veltroniano è destinato a rappresentare, in prospettiva, una nuova spina nel fianco per il segretario.

I colpi assestati al partito nella settimana appena trascorsa non sono stati ancora incassati. Prima il “memento” sui risultati successivi alla sua gestione di gran lunga inferiori a quelli da lui conseguiti. Poi la stoccata a Massimo D’Alema, con l’ex segretario del Pd  che constata che ci sono visioni politiche diverse, e io non l’ho mai negato. Ma è nato il Pd e questo obiettivamente è stata la realizzazione del disegno politico che Prodi e io sostenemmo nel 96”. Parole che “Il Fatto” sintetizzava così: “La nascita del Pd è stata la mia vittoria politica su D’Alema”.

Quanto alla leadership futura della coalizione, Veltroni invita a non parlare di nomi e liquida come “straordinaria leggenda metropolitana”, inventata “di sana pianta”, l’ipotesi di un ticket con il governatore pugliese Nichi Vendola. Intanto, però, la battaglia sulla titolarità del segretario in carica, Pier Luigi Bersani, a candidarsi come premier a nome del partito nel 2013 non è certo sfumata. Paradossalmente ora sono gli uomini più vicini al segretario a difendere le regole volute da Veltroni e a invocare il rispetto del dettato dello Statuto. “Bersani è il nostro leader, abbiamo uno statuto chiaro, il nostro leader lo candideremo alla presidenza del Consiglio” dice Enrico Letta.  

Ma, avvertono i veltroniani, questo è verissimo se si accetta l’idea del partito a vocazione maggioritaria che Bersani aveva finora contestato. Se il partito punta sulla logica della coalizione, è la tesi, non ha più senso dire che il segretario è il candidato alle primarie.

Insomma il braccio di ferro è in corso e non può essere nascosto dietro il savoir-faire veltroniano che invita tutti a percorrere la consueta logica dell’impallinamento sistematico del leader di turno. Quel che è certo è che, in questa fase, è difficile dare torto al politologo Roberto D’Alimonte quando sul Sole24Ore parla di “un partito ancora in cerca di una identità, di una strategia politica e di un leader”.

La ricerca di una linea reale di modernizzazione del partito è in corso, così come è tutt’altro che archiviata la questione della contendibilità della leadership del partito. Come dire che la polvere nascosta sotto il tappeto appare destinata, inevitabilmente, a tornare alla luce.