“Nessuno è innocente”. Il secolo noir di Jim Thompson
02 Maggio 2010
“Non ci sono peccati privati. Sono tutti pubblici, tutti condividiamo quelli degli altri e tutti gli altri condividono i nostri”. La colpa come massimo comune denominatore. La certezza che nessuno, ma proprio nessuno può permettersi di compitare epitaffi all’onestà e alla probità scagliando la prima pietra contro i cattivi. No one is innocent. E non se ne provi vergogna.
È partendo da questo assunto, da questa devastante consapevolezza del Male come elemento ctonio e fondante dell’animo umano che Jim Thompson incominciò a servirsi di carta e penna per raccontare. Non prima, ovviamente, di aver avuto, nel corso di una delle esistenze più randagie e sofferte che la storia della letteratura ricordi, la prova provata di quanto andava dicendo. Sì, perché lo scrittore di Anadarko fin da ragazzino dovette misurarsi con mostri e fantasmi di ogni tipo, assaggiando la frusta implacabile del Destino e cercando di schivarne i colpi alla meno peggio.
Deprivato di una normale fanciullezza dalle scapestrate, rovinose imprese di un padre-canaglia (tante volte evocato, sotto varie vesti, nei suoi romanzi), poco più che adolescente poteva già considerarsi un “uomo”, nel senso meno piacevole e più doloroso del termine. Trasferimenti continui e forzati, dozzine di lavori mal pagati, un’educazione, scolastica e domestica, assolutamente precaria. Ma soprattutto il contatto ulcerante con la realtà della provincia americana, dove gli scintillii e gli entusiasmi che nelle grandi città stavano rendendo “ruggenti” gli anni Venti non arrivavano neanche di riflesso. Solo un esercito di ladruncoli, truffatori e imbroglioni di mezza tacca con i quali dividere le proprie giornate, cercando di portare a casa la pagnotta senza rimetterci le penne.
Niente di più facile, quindi, che un giovanotto di belle speranze e poche possibilità potesse sprofondare in un buco nero di sconforto e perdizione: e, infatti, il Thompson dell’epoca è già ai ferri corti con la vita. Con i nervi scoperti e le preoccupazioni come uniche ancelle onnipresenti nella propria quotidianità, cominciò ad attaccarsi alla bottiglia e alle droghe nel vano tentativo di stordirsi e placare il dolore. Ma i demoni non si lasciano annegare facilmente. In presenza di un cuore e di un cervello capaci di pulsare oltre la media, le deformazioni istupidenti e, talvolta, consolatorie indotte dalle sostanze psicotrope, si trasformano in una capacità ancora più fine di penetrare nell’essenza delle cose e delle persone. Dunque, dolore. E disillusione, sofferenze. Sempre più forti, sempre più insopportabili. Fino a quando anche il fisico chiede la sua parte e si crolla di schianto. E si arriva all’esaurimento.
Fortunatamente, però, proprio sulla soglia ultima del baratro la molla incomincia a scattare. “Quando le cose vanno veramente male significa che stanno per andare meglio”. Non soltanto parole (le si può leggere nell’ottima autobiografia Bad Boy), ma una vera e propria filosofia di vita che portò Thompson ad andare avanti e ad attraversare gli anni bui della Grande Depressione spostandosi di continuo da una città all’altra e cercando di sbarcare il lunario nei modi più disparati.
Intanto, forse per il sopraggiungere di una virilità ormai anche anagrafica, le infinite scene di violenza, sopruso e corruzione che andavano scorrendo sotto i suoi occhi, pur non smettendo di scavare solchi incolmabili nell’anima, cominciavano a profilarsi nella sua mente come un qualcosa di molto meno indecifrabile e inutile rispetto al passato, rispetto a quando era soltanto un ragazzo. Un disegno. Dietro ogni cosa ci deve essere un terribile, preciso disegno. Ed ecco, dunque, scattare la seconda molla. Quella dell’ispirazione. Quella che ti inchioda, volente o nolente, al foglio e alla penna per raccontare storie che non si possono più trattenere. Che devono esplodere, perché altrimenti rischiano di avvelenarti il sangue, di ammazzarti. Insomma, le tue storie.
Gli anni Quaranta e Cinquanta videro Thompson dedicarsi anima e corpo alla scrittura, con dei ritmi produttivi ipersostenuti se si pensa che quasi i tre quarti della sua intera produzione (una trentina di romanzi) venne concepita in quelle due decadi. Ma la cosa più sconvolgente, al di là della vena prolifica non proprio così rara tra gli scrittori di genere, è lo scarto psicologico, l’inusitata profondità con la quale viene affrontata la materia trattata rispetto a quanti lo avevano preceduto nell’ambito del noir e dintorni: se, infatti, truffatori, psicopatici e assassini avevano da sempre rappresentato un humus assai fecondo per la creazione di racconti e, talvolta, di capolavori in quella che convenzionalmente viene ritenuta la narrativa “alta”, lo stesso non si poteva certo dire per la narrativa, sempre convenzionalmente, ritenuta “bassa”.
Dove mai si era vista, per esempio, una tale capacità di penetrare nei microcosmi cerebrali più reconditi e spaventosi di una mente criminale? Dove l’incessante dedizione a cogliere con la più impietosa delle precisioni, con la più lenticolare delle acribie, i meccanismi dell’atto e del pensiero delittuoso? In Dostoevskij, in Zola, ma non certo in uno che, si presume, sia un semplice esponente dell’artigianato letterario, uno la cui opera è quasi sempre pubblicata direttamente in edizione pocket per far sì che si venda più e meglio presso i fruitori di prodotti editoriali meno esigenti e colti. Succede quindi che quello che viene immaginato come lettore convenzionale rimanga a dir poco spiazzato di fronte a libri come Nulla più di un omicidio, L’assassino che è in me, Notte selvaggia, L’altra donna, È già buio,dolcezza. Sì, okay, ci sono la trama, i personaggi, i fatti, ma è… così difficile da leggere! Così indigesto in certi arzigogoli descrittivi che sembrano enormemente strani e rallentanti rispetto al consueto, accelerato ritmo di un buon libro di macchia e intreccio.
Il problema, qui, è che non ci si trova mai di fronte ad una semplice azione, ma ad un’actio orchestrata da forze oscure, quasi ultraterrene; il problema, qui, è che quello che succede non è il frutto di semplici concatenazioni, ma di una serie continua, inesorabile, di gesti, intesi e presentati come riflessi di moti tutti interiori, tutti cerebrali. Insomma, la storia raccontata, per quanto abbia un edificio scenico e scenografico in qualche modo ancorato alla tradizione del genere (e alle aspettative alle quali ha abituato i suoi lettori), emerge continuamente su un livello diverso, infinitamente meno rilassante e più complicato rispetto a quello che ci si aspetta.
Per fortuna, nonostante le vendite non siano poi così malvagie e lo scrittore tiri in qualche modo a campare, qualcuno riesce a capire lo scopo e il senso più profondo e vertiginoso della sua narrativa. Ed è un “qualcuno” per davvero, perché si chiama Stanley di nome e Kubrick di cognome. “Il più grande romanzo su una mente criminale che sia mai stato scritto”. Con queste parole il regista di New York si espresse a proposito de L’assassino che è in me, intuendo che dietro quella squallida storia di angherie e violenza (tra l’altro presto sui grandi schermi con la riduzione cinematografica di Michael Winterbottom con Casey Affleck, Jessica Alba e Kate Hudson), si celava la mano di un genio.
Un genio da non lasciarsi sfuggire assolutamente. Un genio da sfruttare anche a livello cinematografico. La collaborazione tra i due, mai facile o serena (come testimonia un’interessante sezione della documentatissima Jim Thompson-una biografia selvaggia di Robert Polito), si risolve in due gemme inestimabili come Orizzonti di gloria e, soprattutto, Rapina a mano armata, in cui il contributo del “bad boy” risulta fondamentale tanto in sede di sceneggiatura, quanto nella scrittura dei dialoghi.
Il sodalizio, però, s’interrompe presto. E, sembra, abbastanza bruscamente. Niente di più facile tenendo in conto la statura dei personaggi, d’altronde. Thompson non è tipo da studios. Troppo forte il suo temperamento per farsi assoggettare alle esigenze narrative e ai capricci creativi degli altri. Anche dei Kubrick. Curiosamente, ma perfettamente in linea con la sua sfortunata vicenda umana, il cinema non smise mai di amarlo, di cercarlo, come dimostrano le trasposizioni filmiche di altri suoi capolavori, Getaway ! (di Sam Peckinpah, con un indimenticabile Steve McQueen), Pop 1280 (“Colpo di spugna”di Bertrand Tavernier, con Philippe Noiret) e The Grifters ( “Rischiose abitudini” di Stephen Frears, con John Cusak e Angelica Houston), tanto per citare le più famose.
Nonostante questo, però, la parabola si fa già (decisamente) discendente nel corso degli anni Sessanta. Forse per un sentimento più diffuso di ottimismo, chissà. Magari, qualcuno è convinto che è tempo di essere più ottimisti e che, forse, il mondo cambierà per davvero. Come recitava il famoso adagio dylaniano? Ah, sì: “The times they are a-changin’. Nei romanzi di Thompson, invece, non cambia mai niente e il mondo sembra rimanere una strada lastricata di sventure, una highway sdrucciolevole dove tutti, ma proprio tutti, buoni e cattivi, presto o tardi perdono il controllo ed escono fuori corsia a causa del Sommo Brutto che li abita. Nel domani non v’è salvezza, anche se…
Arrivano i Settanta e con loro un oblio quasi assoluto. L’unico sussulto è rappresentato dalla già ricordata trasposizione su pellicola- per altro molto fedele nello spirito- di Getaway! Thompson è un uomo vecchio, uno scrittore dimenticato. Soprattutto, è uno che non ha sfondato. E poi, manco a dirlo, una vita di stravizi etilici, allucinogeni ed emozionali si risolve a presentare, salato e impietoso, il fatidico conto. E i conti si pagano. Anche se…
C’è un letto che è un letto di morte, un posto dove forse fai a tempo a rimetterti in pari con qualche errore, ma dove, sicuramente, non puoi giocare a truccare i bilanci o a sbilanciarti sbarazzino nelle previsioni. Eppure lui lo sa che le cose non possono andare a finire così. Le cose non finiranno così. Ne è talmente sicuro che proprio un istante prima di congedarsi, trova il coraggio di consolare la moglie al capezzale assicurandole che di lì a dieci anni sarà ricca, perché lui tornerà in auge, anzi, ascenderà post mortem come non avrebbe mai fatto in vita. E i suoi libri si venderanno, finalmente, facendogli conquistare quel successo e quella fama che avrebbero dovuto essere e che non sono mai stati. È il mese di aprile del 1977.
A partire dai primi anni Ottanta, la riscoperta di Thompson sia negli Stati Uniti che in Europa è stata sorprendente. Pubblicazioni, nuove traduzioni, inediti, addirittura sceneggiature vecchie di cinquant’anni o più che presto diventeranno film (è il caso di Lunatic at Large, un trattamento recuperato nei cassetti del “solito” Kubrick). Ma soprattutto colpisce l’elevazione al rango di grande autore, di innovatore letterario. Così come le porte spalancate all’interno dei programmi accademici e dei salotti intellettuali più prestigiosi. Insomma, sarà pur stato uno scherzo del Destino, ma l’autoprofezia si è incontestabilmente avverata. Viene da pensare che se fosse stato anche solo un po’ meno dissoluto, un po’ più accorto e malleabile, oltre che fortunato, forse avrebbe saputo gestirsi meglio, nella vita e nell’arte. E magari un pezzettino di sogno lo avrebbe acchiappato, se lo sarebbe goduto.
E invece no.
“Jim Thompson non conosceva il significato della parola “fermarsi”. Così ha messo in atto tre sfide: vedere tutto quello che era possibile vedere, scriverlo, pubblicarlo”. Parola di Stephen King.
Jim Thompson, il “bad boy”, era così. Perennemente in fuga. E magari sarà ancora lì, fra le nuvole ovattate del cielo o forse (forse sì) in mezzo alle fiamme nere di qualche inferno, a tirare l’ennesima corsa. Provate a prenderlo.