Netanyahu chiede all’Egitto di onorare la pace con Israele
03 Febbraio 2011
Ieri è stato un giorno drammatico per la nostra regione. Milioni di persone si sono riversate nelle strade dell’Egitto. Il presidente Mubarak, che ha governato il paese per 30 anni, ha annunciato che non si ricandiderà alle prossime elezioni presidenziali, e che lavorerà per lanciare una nuova fase di riforme in Egitto. A Washington, Londra, Parigi, e in tutto il mondo democratico, leader, analisti, e ricercatori si prodigano in analisi sulle opportunità che le trasformazioni in Egitto potrebbero portare. Si parla molto di promesse di un nuovo giorno. Sono speranze comprensibili.
Tutti coloro che hanno a cuore la libertà umana, e tra questi sta certamente anche il popolo di Israele, sono animati da genuini slanci riformatori e dalla speranza che ciò avvenga.
E’ ovvio che un Egitto che abbracci pienamente il 21simo secolo e che adotti tali riforme costituirebbe una fonte di grandi speranze per il mondo intero, per la regione mediorientale e per noi israeliani. In Israele, sappiamo che valore hanno le istituzioni democratiche e soprattutto ben capiamo il significato del concetto di libertà. Teniamo a mente il valore di tribunali indipendenti, strumenti fondamentali per la protezione dei diritti delle persone e soprattutto abbiamo a cuore lo stato di diritto. Abbiamo a mente l’importanza di una stampa libera, e di un sistema parlamentare con una maggioranza e un’opposizione.
E’ chiaro che un Egitto ben ancorato a tali istituzioni, un Egitto agganciato a valori democratici, non sarà mai una minaccia alla pace. Al contrario, se qualcosa c’è da apprendere dalla storia moderna, è che tanto più forti tali fondamenta sono, tanto più forti saranno domani le fondamenta della pace. Se è vero che la pace tra democrazie è più forte, è altrettanto vero che la democrazia rafforza la pace.
Uno dei possibili scenari, che indubbiamente ci trova tutti concordi, è che queste speranze di democrazia e di graduale, stabile processo di pace trovino realizzazione in Egitto. E’ vero anche però che questo non è l’unico scenario possibile. Perché molto lontano da Washington, Londra e Parigi – non troppo da Gerusalemme – c’è un’altra capitale nella quale c’è chi cova altre speranze. In questa capitale, ci sono leader che vedono opportunità nel cambiamento che sta avvenendo in Egitto. Anche loro si richiamano ad un promessa di un nuovo giorno. Ma per le persone in quella capitale, la promessa di un nuovo giorno porterebbe con sé non la luce di una nuova alba, bensì un giorno fatto di tenebre.
Quella capitale è Teheran. Vi assicuro che i leader in Iran non sono molto interessati alle genuine richieste di libertà, liberalizzazione o riforme degli egiziani, e se lo sono, lo sono nella misura in cui lo furono rispetto alle simili richieste fatte dal loro stesso popolo, il popolo iraniano, solo 18 mesi fa. A me l’onere di rinfrescarci la memoria. Anche gli iraniani ebbero le loro manifestazioni; moltitudini di uomini e di donne riempirono le piazze cittadine. Ma, come si ricorderà, le cose presero una china diversa. Stavo per dire finirono in maniera diversa, ma non sono sicuro che quella vicenda sia finita.
Il regime iraniano non è interessato a vedere un Egitto che protegge i diritti delle persone, delle donne e delle minoranze. Non sono interessati a un Egitto illuminato che abbracci il 21simo secolo. Loro ambiscono a un Egitto che ritorni al Medio Evo. Sperano in un paese che divenga una nuova Gaza, governato da forze estremiste che si oppongano a tutto ciò che il mondo democratico rappresenta. Due mondi diversi si fronteggiano, due diverse visioni: un mondo libero e democratico e un mondo fatto di estremismo. Quali delle due si affermerà in Egitto?
La risposta a questa domanda è cruciale per il futuro dell’Egitto, della regione mediorientale e per il nostro futuro qui in Israele. La nostra posizione è chiara. Noi sosteniamo le forze che promuovono la libertà, il progresso e la pace. Noi ci opponiamo a quelle forze che cercano di imporre un buio despotismo, il terrorismo e la guerra. Qualora le sagge forze che desiderano riformare e democratizzare l’Egitto dovessero prevalere, sono convinto che tale cambiamento positivo rafforzerebbe le possibilità di pace tra gli arabi e gli israeliani. Ma ancora non siamo a quel punto.
Prima di tutto, questa battaglia non è stata ancora vinta. In secondo luogo, è possibile che passi molto tempo prima che una delle due forze in campo raggiunga la vittoria, senza contare che tale risultato potrebbe essere accompagnato da un lungo periodo d’instabilità. Terzo, la storia recente ci dice che in molti casi formazioni islamiste sono riuscite a prendere il potere abusando delle regole dei regimi democratici, finendo con imporre dei regimi non democratici. E’ esattamente quello che è accaduto in Iran; è quello che è accaduto in Libano; ed è accaduto anche quando Hamas è riuscito a prendere il controllo sulla striscia di Gaza. Secondo voi l’Iran ha a cuore la libertà? Secondo voi c’è una vera democrazia a Gaza? Secondo voi Hezbollah promuove i diritti umani?
Dobbiamo fare in modo che questi eventi non accadano di nuovo. Dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere perché la pace trionfi. A questo proposito voglio offrirvi, membri della Knesset, una considerazione a cui ho fatto riferimento nel mio intervento di ieri. Vorrei chiarire un punto che forse molti giovani israeliani non colgono, ma che la maggior parte di noi, forse tutti noi, capiamo molto bene.
Negli ultimi trent’anni, abbiamo goduto di pace su due dei nostri confini. Uno è quello pacifico con l’Egitto. L’altro è quello con la Giordania. Di fatto il confine pacifico con la Giordania, ha smesso di essere confine di guerra circa 40 anni fa. Prima abbiamo avuto la calma, e poi abbiamo avuto la pace. Con l’Egitto è andata alla rovescia. Ma ciò che conta è che su entrambi questi confini abbiamo goduto di una pace, e non di una assenza di guerra. Non abbiamo dovuto difendere quelle frontiere. Ci sono persone in quest’aula che si ricordano cosa ciò abbia significato per noi. Vedo Avi Dichter qui, e Shaul Mofaz, Matan Vilnai e molti altri. Noi ci ricordiamo quale fosse la situazione quando non c’era la pace. Come eravamo costretti a batterci sul canale di Suez, sulle sponde del canale, dentro di esso, e in Giordania. Ci siamo battuti, tutti noi. Adesso tutto è finito. Ciò ha cambiato il mondo, oltre a cambiare lo Stato di Israele. Ha modificato il contesto strategico. Ed è per questo che preservare la pace esistente è per noi vitale.
Ci aspettiamo da qualsiasi governo rappresenti domani l’Egitto, che esso onori la pace. Non solo, ma ci aspettiamo che la comunità internazionale esiga da qualsiasi governo terrà le redini dell’Egitto, di onorare la pace. Questo deve essere chiaro, accanto a qualsiasi discussione su riforme e democrazia. Dovremmo anche umilmente riconoscere la verità, ovvero che queste grandi rivoluzioni, questi cambiamenti drammatici, questi terremoti politici, su tutto questo noi israeliani non abbiamo inciso. Ma questa è una questione importante che però discuteremo in altro momento.
Non credo si debba discutere di tutto e nel dettaglio sui cambiamenti egiziani. Ma dirò una cosa: siamo in un momento di turbolenza. In queste situazioni dobbiamo mantenere un alto livello di guardia. Dobbiamo vedere le cose per quello che sono, e non come ci piacerebbe che fossero. Dobbiamo sforzarci di non piegare la realtà dentro una cornice troppo stretta o inadatta. Dobbiamo accettare che un significativo cambiamento stia avendo luogo, e mentre si dispiega, dovremmo riuscire a mantenere uno sguardo vigile sugli eventi.
La base della nostra stabilità e del nostro futuro risiede nella preservazione e prolungamento della pace. Specialmente in tempi incerti come questi, il nostro obiettivo è di rafforzare la forza dello Stato d’Israele. Abbiamo bisogno di sicurezza, ma abbiamo bisogno anche di essere onesti con noi stessi. Quando dico ‘essere onesti con noi stessi’, intendo dire che dobbiamo smetterla con l’autoflagellazione sui problemi che ci circondano e i cambiamenti che stanno prendendo forma. Sarebbe facile biasimarci per tutte queste ragioni e anche per la questione palestinese, di cui discuterò brevemente più avanti. Ricordiamoci che nel biasimo di noi stessi è insito l’orgoglioso pensiero di essere in controllo della situazione, un pensiero che ci fa credere che gli sviluppi che seguiranno dipendino da noi. In più ci sono quelli che si sentono impotenti di fronte a tali cambiamenti.
Possiamo essere fautori della pace, o farla a pezzi, e possiamo fare sempre qualcosa per cambiare il corso delle cose. Ma quando invece tutto sta’ nelle mani di un’altra parte, o di altre parti, non abbiamo alcun margine di manovra per incidere sul risultato. Non intendo dire che ci piangiamo addosso. E’ piuttosto vero però che c’è una certa tendenza a biasimare la nostra leadership. Come si sa, sono io il leader adesso, ma abbiamo avuto sette primi ministri. Abbiamo rimpiazzato sette primi ministri da Oslo, passando per Camp David e Annapolis, e continuiamo a biasimarci. E ci stupiamo poi se il mondo ci biasima?
(…)
Traduzione di Edoardo Ferrazzani