New Deal, c’è un piano franco-tedesco per il lavoro giovanile

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New Deal, c’è un piano franco-tedesco per il lavoro giovanile

13 Maggio 2013

Anche dal buen retiro di Spineto il presidente del Consiglio Letta è tornato a parlare di Europa, giovani e lavoro. Nei giorni scorsi è circolata la notizia che una parte delle risorse necessarie a finanziare i primi provvedimenti per fronteggiare la disoccupazione giovanile potrebbero arrivare dall’Europa.

In effetti andando a controllare cosa succede tra i big Francia e Germania si scopre che qualcosa sul tema si sta muovendo. Lo hanno chiamato "New Deal" e nelle previsioni dei ministri del lavoro di Parigi e Berlino dovrebbe essere un grande piano europeo per rilanciare il lavoro giovanile; se ne dovrebbe discutere alla fine di maggio complice un filantropo miliardario cinquantenne, tal Nicolas Berggruen, che ha familiarità bipartisan con le classi politiche franco-tedesche.

Il meccanismo dovrebbe essere quello messo a punto dai francesi per tagliare le unghie al rigore nordico già dal giugno dell’anno scorso: intervento della BEI, la banca europea per lo sviluppo e project bond con l’impegno di favorire percorsi di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Potrebbe rivelarsi uno dei primi appuntamenti in cui la Francia di Hollande, che vive un momento drammatico di calo dei consensi a fronte di una disoccupazione giovanile crescente, chiederà all’Italia di far fronte comune davanti ai maldipancia tedeschi sulle operazioni di spesa pubblica europea.

Il punto su cui intervenire, secondo l’Europa, che sul tema ha già staccato qualche finanziamento, è il passaggio delicato tra la fine della formazione scolastica e universitaria, l’apprendistato e l’ingresso del mondo nel lavoro, mesi decisivi per motivare i giovani nel loro percorso professionale. Per l’Italia sarebbe forse l’occasione di ripensare l’orientamento sia a livello universitario che rispetto al variegato arcipelago dei centri per l’impiego ma soprattutto di puntare su progetti che abbiano una reale ricaduta sui territori creando nuovo lavoro o facendo emergere quello che c’è ma funziona a nero.

Una idea potrebbe essere quella di puntare su investimenti mirati e rendicontabili sulle università, per favorire la creazione di centri di ricerca o enti universitari convenzionati, che abbiano il compito di analizzare le trasformazioni del mercato del lavoro, il rapporto tra domanda e offerta di manodopera, quanti studenti vengono immessi sul mercato e quanti possono essere assorbiti (innescando quindi numero chiusi e test d’ingresso per le facoltà che chiaramente non offrono sbocchi concreti), con l’idea di coordinare i diversi centri sparsi a livello regionale per avere un quadro certo e numeri concreti a livello nazionale.

Attualmente il placement delle università italiane non è che un grande raccoglitore di curricula spesso avulso dalla realtà economica e imprenditoriale circostante. Produrre dati certi servirebbe non solo all’università per le politiche sulla formazione (più mirata, con l’obiettivo non di preparare ma di formare persone già pronte al lavoro) ma anche alle aziende per avere personale giovane e qualificato.