Oggi non è facile essere Aquilani all’estero. A New York, le notizie sul terremoto le ricevo tramite Bloomberg, Associated Press e Sky news. CNN è molto in ritardo. La Rai in diretta è disponibile su Internet e solo entro i confini nazionali. Cerco di non irritarmi troppo, mi chiedo solo: ma perché avere un sito web che non comunica con il mondo?
Quello che riesco a vedere è incomprensibile. Conosco l’Aquila molto bene, essendoci nata e avendoci vissuto fino all’età dell’Università, ma non riconosco nessuna strada nei cumuli di pietre che le poche immagini disponibili mi mostrano sul computer. I miei genitori, che abitano in centro, a un passo da Piazza Duomo, sono stati costretti ad evacuare il loro appartamento, e ci rientreranno solo dopo che sarà accertata l’agibilità dell’intero palazzo, una costruzione del XIX secolo. Ma stanno bene, come il resto della famiglia.
Mio padre non è neanche uscito di casa alle prime scosse. E’ stato fortunato. Leggo il conto dei morti e quasi non ci credo. Il fatto è che gli Aquilani ai terremoti ci sono abituati. Nell’ultimo mese mia sorella mi ha scritto quasi giornalmente di piccole scosse: “qui si balla anche oggi”. Non proprio un picnic, ma neanche da preoccuparsi troppo. Mi vengono in mente tutte le volte che da bambina ho sentito un terremoto. E’ un’esperienza terrificante, che diventa presto familiare. Quando non ci sono i morti.
Ricordo una notte gelida d’inverno passata fuori casa nella Seicento di papà, dopo che i letti si erano spostati di un buon mezzo metro sotto di noi. Passato il terrore del momento, ma non potendo più dormire, arrivai al mattino studiando latino: anche correndo fuori di casa ero riuscita a portare con me i libri di scuola, la professoressa di latino e greco mi faceva più paura del terremoto.
Oggi ho ricevuto telefonate dagli Stati Uniti, da Londra, da Pristina e Roma. Erano tutti amici che sanno delle mie origini italiane o che ricordano vagamente le mie storie di un’infanzia in montagna vicino a Roma. La solidarietà è palpabile e mi conforta. Perché invece le notizie mancano.
Da l’Aquila, da amici e parenti, sento qualche storia, ma nessuno ha molte parole da spendere. Uno è rimasto senza casa, ma sta bene, solo che non sa che dire. Invece un vecchio compagno dello sci-club è rimasto, con tutta la famiglia, sotto le macerie. Non c’è gas e cucinare è un problema.
Vorrei essere lì a vedere cos’è successo alla bellissima città dove non vivo da decenni, ma che amo tanto. Un muro di Santa Maria di Collemaggio è caduto, il Castello è danneggiato, il campanile di San Bernardino caduto. Lo leggo sul sito web di Associated Press. E il resto?
Ci sono altre persone che conosco tra le vittime? Non nella casa dello studente, dove tanti ragazzi sono rimasti vittime del terremoto. Ma perché alcune case sono cadute e altre no? Fra poco ci saranno le polemiche ed è giusto che ci siano, perché l’Aquila è al centro di una zona sismica e le costruzioni devono essere soggette a regole scrupolose.
Da New York, posso solo continuare a telefonare e cercare risposte che nessuno può ancora darmi. Amici e parenti sono in uno stato di shock, alcuni non sono ancora riusciti a comunicare tra loro, anche se per me chiamare da New York è facile. Sono io che chiamo mia sorella per dirle che i nostri cugini sono illesi.
Non riesco a raggiungere l’arcivesvocado, la linea è sempre occupata. Don Giuseppe Molinari, come l’ho sempre chiamato dal tempo del Liceo dove mi insegnava religione, deve essere occupatissimo. Spero stia bene. Ho appena sentito un ex-compagno di scuola, la sua voce è affaticata al telefono: sua sorella, un’altra vecchia amica, è in ospedale, ma è salva dopo aver passato tre ore sotto le rovine della sua casa.
L’Aquila è una piccola città. Ci si conosce quasi tutti. Non ci si telefona. E’ facile incontrarsi per il Corso, dal giornalaio, al supermercato, al bar per l’aperitivo. Più di cento morti, anche se si considerano le frazioni vicine, sono tantissimi non solo in sé ma per l’impatto che avranno sulla comunità.
Per noi che siamo così lontani e soffriamo in modo vicario per la tragedia, sarebbe un conforto avere più informazione. Ma anche se siamo nel secolo XXI, il telefono rimane il mezzo migliore per avere notizie. La Rai, l’ho scoperto solo oggi, funziona a circuiti chiusi nazionali. Qualcosina di più l’apprendo dalla TV Kosovara, che come tutte le TV del mondo è globale.