Newt Gingrich è tornato per dire che in America non c’è politica senza fede

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Newt Gingrich è tornato per dire che in America non c’è politica senza fede

27 Maggio 2010

Ricordate Newt Gingrich? Negli 1980 era l’“uomo nuovo” del Partito Repubblicano, giovane e aitante, portato in palmo di mano dalla “New Right” di Richard A. Viguerie, Morton C. Blackwell e Paul M. Weyrich (1942-2008). Nel 1994 capitanò la crociata del “Contract with America” (scimmiottato un po’ ovunque dai vari Centrodestra di governo e di opposizione europei), ottenendo quel clamoroso successo elettorale che portò il Grand Old Party (i Repubblicani) a conquistare, dopo 40 anni secchi, la maggioranza alla Camera. Lui ci guadagnò la presidenza di quell’assise e un sacco di fama meritata, ma venne il declino.

La “rivoluzione Repubblicana” del 104° Congresso segnò il passo, l’esercito vittorioso, come sovente accade, prese a riposarsi sui propri allori e quelle fila finirono per scompaginarsi. Poteva essere l’inizio di una grande offensiva neoreaganiana, si mutò invece in un tracollo che ha raggiunto il nadir alle elezioni del 1998, dopo le quali Gingrich rassegnò le dimissioni, e che è tristemente proseguito – nonostante gl’importanti successi Repubblicani alla Casa Bianca, in specie la vittoria di George W. Bush jr. per il secondo mandato, nel 2004 – fino al primo disastro delle elezioni di medio termine del 2006, prodromiche al successo Democratico del 2008 ai vertici istituzionali del Paese, secondo disastro.

Probabilmente le mosse di Gingrich, che a suo tempo era stato al centro della grande offensiva politica mirante a travolgere il presidente Bill Clinton per via giudiziaria, non vennero appieno capite nemmeno dal “suo popolo” di riferimento, il quale ha spesso intonato il ritornello (un po’ stantio, ma sovente pure vero) di chi diffida dei politici troppo spavaldamente idealisti annusandoci puzzo d’ipocrisia. Così Gingrich si è “ritirato” nel suo, del suo ha vissuto per anni, il che non è poca cosa per un uomo politico di prima grandezza, insomma ha vestito i panni di Cincinnato ed è tornato al suo amore originario, lo studio.

Del resto, prima di scendere in politica, aveva insegnato brillantemente Storia alla University of West Georgia, a Carrollton, dal 1970 al 1978. Un punto notevole, questo, perché nonostante gli uomini politici di successo non riescano mai a scrollarsi interamente di dosso l’ombra della strumentalizzazione, Gingrich ha dimostrato, fatti alla mano, di essere molto più che un semplice uomo di partito. Gli anni del “nascondimento” hanno infatti generato riflessioni e considerazioni che gli fanno grande onore, come per esempio si legge in un libro quale Winning the Future: A 21st Century Contract with America (Regnery, Washington 2005). Ma non è finita.

Protestante battista sin dagli anni del liceo, vita piuttosto burrascosa segnata da ben tre matrimoni, il 29 marzo 2009 Gingrich si è convertito al cattolicesimo, fede della sua attuale moglie, la terza, Callista Bisek, con cui co-produce video e filmati di notevole interesse. Spesso giudicato cinico e spregiudicato, Gingrich ha cioè saputo riconiugare, in modo cristallinamente americano, cioè unico, fede e politica, e per di più finendo cattolico, cosa hard già di suo. Lo mostra il suo bel libro Rediscovering God in America: Reflections on the Role of Faith in Our Nation’s History and Future (Integrity Publishers Inc., Wake Forest [North Carolina] 2006), ma soprattutto quello nuovo di zecca (fra l’uno e l’altro, lo ricordo ancora, passa la sua conversione al cattolicesimo), To Save America: Stopping Obama’s Secular-Socialist Machine (Regnery).

È la testimonianza adamantina di quanto siano eccezionali gli Stati Uniti d’America. Opporsi a uno come Barack Hussein Obama – ragiona Gingrich in sintonia con milioni di americani – è un dovere politico verso la patria vilipesa e un servizio a Dio offeso. Ogni questione politica – si evince dal libro – è, in radice, se non altro al fondo, una questione teologica. Fra le due cose vi sono solo differenze di articolazioni e di enfasi, non separazioni di sfere. Laico significa insomma cristiano, libero significa responsabile, americano significa credente. Gli altri? Attività antiamericane…

Dalle nostre parti sono cose che suonano marziane; là invece è la realtà del “fusionismo” e intride di sé milione di cittadini-contribuenti-elettori. Oggi è la lingua del popolo dei “Tea Party”. Significativo che, in modo umile ma non per questo dimesso, Gingrich stia tornando alla ribalta proprio dentro quel movimento: non dal predellino poiché sarebbe una star, ma dal basso giacché è un leader.

Potrebbe essere solo l’ennesima ipocrisia? Potrebbe. Ma nel mentre Gingrich ci si è giocato la faccia. Se dovesse essere in malafede, la pagherà per sempre. Per questo il popolo genuino e ruspante dei “Tea Party”, avvezzo a percepire la fregatura a miglia di distanza, ha scelto di credergli. Vi ricordate la “bella politica”? Eccone finalmente un esempio autentico.

P.S. E mentre negli Stati Uniti le “feste del tè” impazzano, anche da noi la protesta “fusionista” antifiscale, con la benedizioni di amici e cugini già attivi in diversi Paesi d’Europa e appunto Oltreoceano, fa tintinnare con le sue prime tazzine. E nato infatti il movimento “Tea Party Italia”, www.t-party.it, si è presentato in pubblico a Prato il 20 maggio e ora avanza alla volta di Roma, Milano e mille altre città. Che sia la volta buona?

Marco Respinti è il Direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]