Nicola Mancino, il presidente della repubblica dei magistrati
02 Luglio 2008
Il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura che non t’aspetti. Colui che in luogo del presidente della Repubblica dovrebbe reggere le sorti di quell’organo che, come recita la Costituzione, sarebbe deputato a garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, in particolare da quello esecutivo, e invece si ritrova a sparare dall’alto della sua carica contro il potere politico. Contro la classe parlamentare che in questa Legislatura siede su quegli stessi banchi che lui per trent’anni ha calcato.
Sia chiaro però a finire sotto i colpi delle critiche di Nicola Mancino non è stata tanto quella maggioranza di centrosinistra che nell’agosto del 2006 lo elesse alla comoda poltrona di consigliere del Csm, piuttosto quella attuale. Così il vicepresidente con l’elmetto decide di imbracciare “L’Unità” a mo’ di arma e nella questione del lodo Schifani-bis di schierarsi con l’ala più politicizzata della magistratura. Affondando i colpi, convinto che “quelli che sono oggi in Parlamento sono soltanto degli emissari di coloro i quali hanno avuto il potere di scegliere i candidati e quindi di farli nominare in pieno Parlamento”. Peccato però che nella sua invettiva non ricordi che il Parlamento, o meglio coloro che lui preferisce chiamare “gli emissari” e che lo nominarono per l’alto incarico nel 2006 furono eletti con lo stesso sistema elettorale. Dimenticanze. Non l’unica in questa vicenda nella quale ormai del Csm, organo di autonomia ed indipendenza , c’è soltanto un labile ricordo.
Altro che funzione di tutela della magistratura, qui si tratta del braccio armato contro il governo. Basterebbe pensare a come Mancino è riuscito a sovvertire il significato della lettera-monito del presidente della Repubblica, divenuta nelle sue mani una sorta di reprimenda nei confronti del governo e del suo presidente. Un vero e proprio capolavoro della migliore democrazia cristiana, quella stessa in cui lui fin da giovanissimo iniziò a militare. Militanza che lo ha portato a salire tutti i gradini della scala gerarchica prima locale e poi nazionale. Ecco allora iniziare come semplice segretario della natia Avellino fino a diventare presidente della Regione Campania, un incarico che rivestirà per ben due volte. Da qui, dalla sua regione, per la quale però durante questa gravissima crisi dei rifiuti non ha speso una parola, volerà direttamente a Roma per diventare senatore. Era il lontano 1976. Da quel momento non abbandonerà mai lo scranno di Palazzo Madama, se non per brevi pause. Pause dorate, s’intende. Come quella del 1992-1994 per rivestire il ruolo di ministro dell’Interno o nel 1996 per accomodarsi sulla poltrona di presidente del Senato. Più di trent’anni che di certo non verranno ricordati per la sua grande partecipazione politica. Lo conferma la XVI legislatura dove si registrano solo cinque disegni di legge da lui proposti e poco più di trenta interventi in Aula. Un po’ poco per un esponente di opposizione e soprattutto considerando che la legislatura durò ben cinque anni.
Se scarseggia l’impegno parlamentare non manca quello politico all’interno del suo partito. Vivendo le ultime fasi della Dc per trovarsi al fianco di Mino Martinazzoli, contrario alla svolta a destra del partito. Scelte e strategie politiche che però non lo premieranno al punto che nel congresso del Ppi è costretto a cedere il passo a Rocco Buttiglione. Da qui il passaggio a sinistra nella Margherita fino al 2006 quando viene eletto componente del Csm ed infine in seno al consiglio vicepresidente. Il resto è storia dei nostri giorni, quella di un uomo politico diventato senatore ma finito per trovarsi alla guida dell’attacco della magistratura al Parlamento.