Nicolosi ci permette di conoscere Pannunzio prima del “Mondo”

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Nicolosi ci permette di conoscere Pannunzio prima del “Mondo”

Nicolosi ci permette di conoscere Pannunzio prima del “Mondo”

06 Maggio 2012

Di Pannunzio si è scritto molto sul finire del 2010, in cui cadeva il centenario della nascita, sino a tutto l’anno scorso. In questi ultimi tempi gli sono stati dedicati numerosi articoli e pregevoli saggi, tra i quali occorre ricordare quelli di Quaglieni (Liberali duri e puri. Pannunzio e la sua eredità, Genesi editore, con prefazione di Jas Gavronski, Torino, 2009), Massimo Teodori (Pannunzio. Dal "Mondo" al partito radicale, vita di un intellettuale, Mondadori, Milano, 2010), Antonio Cardini (Mario Pannunzio. Giornalismo e liberalismo. Cultura e politica nell’Italia del Novecento, ESI, Napoli 2011), studiosi che del giornalista lucchese sono tra i maggiori esperti.

Tuttavia per quanto questi profili siano documentati ed esaurienti, nella biografia di Pannunzio mancava una trattazione approfondita di un periodo importante della sua vita pubblica: quello relativo alla militanza nel PLI, di cui fu tra i rifondatori nella clandestinità. Così non era stata prestata sufficiente attenzione alla sua direzione del "Risorgimento Liberale", rispetto al risalto dato a quella de "Il Mondo" e alla sua partecipazione al partito radicale. Non è qui il caso di domandarsene le ragioni: da una parte, lo si deve alla mancanza di ricerche specifiche, mentre dall’altra bisogna dire che la storiografia italiana fino a qualche anno fa aveva steso un colpevole velo di oblio sulle vicende dei liberali italiani.

Nel quadro del "revival" di studi sul movimento, esce ora un libro (G. Nicolosi, "Risorgimento Liberale" , il giornale del nuovo liberalismo. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica, 1943-1948, Rubbettino,2012), che dà un contributo fondamentale alla ricostruzione delle vicende di quel giornale ma anche alla storia della stampa e della cultura. Ne è autore uno studioso dell’Università di Siena che è tra quei ricercatori ai quali maggiormente si deve questa ripresa di attenzione al fenomeno politico del liberalismo. Al suo attivo G. Nicolosi ha importanti lavori sul tema, ma anche un’intensa attività culturale, avendo collaborato all’organizzazione di congressi, coronati dalla pubblicazione de "I Liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, di cui ha curato il primo volume e, come capo della redazione, del "Dizionario del Liberalismo italiano”, opere che hanno contribuito a rompere il silenzio su di una famiglia politica che ha dato un notevole quanto sinora poco conosciuto contributo all’antifascismo, alla resistenza e alla ricostruzione della democrazia in Italia. L’importanza di questo suo libro non sta solo nel poter ricostruire attraverso la lettura delle pagine del "Risorgimento Liberale" le grandi battaglie che il movimento ha combattuto per la libertà e al quale l’autore dedica alcuni interessanti capitoli come quelli su "Pannunzio ed il passato regime", "Resistenza, antitotalitarismo, neoliberalismo: il dna di Risorgimento liberale” e “L’organo di partito nell’arena politica” – che meriterebbero più che una citazione- ma è data soprattutto dall’aver fatto emergere l’importanza di un giornale di cui si è molto parlato ma che in pochi hanno letto (potete ora trovarlo sul sito www.ispli.it).

"Risorgimento Liberale", diretto da M. Pannunzio dal 1943 al 1947 e poi dal 1947 al 1948 da Manlio Lupinacci e Vittorio Zincone, è stato il più bell’organo di partito, che, essendosi conquistato una sua larga autonomia nei confronti di Via Frattina, è stato anche una tribuna di giornalismo libero dopo vent’anni di censura di regime, cui è seguito un periodo di conformismo ciellenistico. “Risorgimento Liberale” riusciva a vendere 50.000 copie in edicola ed era distribuito dagli strilloni nelle strade e perfino negli stadi, pur non appartenendo al genere dei giornali "popolari" perché non faceva alcuna concessione al sensazionalismo, ma era estremamente rigoroso nel trattare non solo gli argomenti politici e culturali, ma anche quelli sportivi e di cronaca nera ed era per di più graficamente molto elegante. Insomma era un giornale molto letto; era presente nelle "mazzette" dei ministeri e molto seguito dai circoli politici e dalla stampa di informazione, che lo citava regolarmente nei "pastoni" , basti pensare alle polemiche suscitate nei riguardi dei suoi editoriali da parte dei giornali dei partiti avversari. Ciò dimostra che i liberali non erano proprio "quattro gatti", ma un partito che "contava" , nonostante il deludente risultato elettorale del 1946 – elezione che aveva contribuito a fondare quel sistema bipolare che ha retto la prima Repubblica – e soprattutto fin quando ha controllato ministeri chiave nel IV e V governo De Gasperi.

Il saggio di Nicolosi permette, inoltre, di seguire la vita interna del giornale. Non solo ci permette di leggere i bilanci – sarà proprio il disavanzo finanziario a portarlo il fallimento – ma particolarmente interessante é la ricostruzione della sua struttura interna. L’autore ci fa vedere come M. Pannunzio sia stato un ammirevole direttore di una grande orchestra, formata da una eccezionale redazione, da prestigiosi editorialisti, da straordinari inviati speciali, da autorevoli collaboratori di “terza pagina”. Nicolosi ci prende per mano e ci fa entrare nella redazione, la vera cucina del giornale, dove riusciamo a conoscere i capiredattori che si sono avvicendati nel tempo: Alfio Russo, giornalista già esperto e che successivamente sarà direttore del “Corriere della Sera” e Ferruccio Disnan, che in futuro diverrà direttore della “Tribuna” di Malagodi; redattori furono tra gli altri Ennio Flaiano e Vittorio Gorresio, che aveva lavorato come redattore viaggiante in Africa e, poi, era stato corrispondente del “Messaggero” da Parigi alla vigilia della guerra; alle “informazioni” furono addetti Renzo Trionfera e Nicola De Feo (Adelfi) e alla politica interna Vittorio Zincone, agli spettacoli e alla cultura Attilio Riccio, noto critico cinematografico, G. B. Angioletti, affermato critico letterario e Giorgio Vigolo, quotato poeta con una lunga esperienza di collaborazione a grandi riviste come la “Voce” di De Robertis, ma anche il “Mondo” di Amendola.

Tra gli editorialisti ne vanno ricordati alcuni: accanto ai grandi dirigenti di partito come Croce, Einaudi, Cattani, Storoni, giornalisti come Manlio Lupinacci, Mario Ferrara, Panfilo Gentile, giuristi come V. Arangio Ruiz, G.B. Rizzo, Guido Astuti, storici come Gabriele Pepe, filosofi come Carlo Antoni ed economisti come Guido Carli e G.U. Papi. Tra gli inviati speciali sono da segnalare Bruno Romani, corrispondente di guerra ed autore insieme a Tullio Vecchietti (Massimo Dursi) delle inchieste sul “terrore rosso” in Emilia Romagna. Romani in seguito sarà corrispondente da Parigi per un grande giornale ed infine professore di letteratura francese. Lo stesso Gorresio svolse un’indagine su “baroni e contadini” siciliani che anticipa gli articoli di Giovanni Russo, per poi approdare alla “Stampa”, così come non può essere dimenticato il nome di Arrigo Benedetti, futuro direttore de “L’Europeo”.

Vera “chicca” è la rilevazione della collaborazione di Indro Montanelli, che inviò sotto pseudomino (Folco Ferrasco) corrispondenze da Milano, mentre corrispondente at large fu Paolo Monelli. Impossibile riportare qui tutti i collaboratori di “Risorgimento”, ma non si può fare a meno di ricordare i nomi di Domenico Bartoli, Luigi Barzini jr, che fu anche capo ufficio stampa del PLI, Augusto Guerriero (Ricciardetto), che diverrà il più grande commentatore di politica estera, Zeno Zencovic (Zeno), corrispondente da Londra e, poi, collaboratore di Carlo Sforza agli Esteri, il poeta Bodini, valoroso ispanista e addetto culturale della Ambasciata d’Italia a Madrid, Amerigo Ruggiero dall’America, l’economista G. Borgatta, e, anche se il dato non è certo, Bruno Leoni (Bielle). Senza parlare delle grandi firme e dei collaboratori di “terza pagina” come Cecchi, Baldini, Falqui, Brancati, Comisso, Patti, Bonsanti, Cassola, Lidia Storoni Mazzoleni, Bassani. Si può senz’altro affermare che sul “Risorgimento” abbia scritto gran parte del gotha del giornalismo italiano: giornalisti appartenenti ad una generazione più anziana, che avevano avuto un’importante esperienza in grandi testate nazionali e che concluderanno le loro carriere nei maggiori quotidiani d’informazione. E giornalisti più giovani, per i quali “Risorgimento” fu una “palestra” e un trampolino di lancio per carriere successive.

Occorre poi riconoscere che attorno al “Risorgimento”, quotidiano ufficiale di partito – come documentato anche in un saggio di Francesco Stagno nel già ricordato primo volume dei “Liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica” – vi era una galassia di giornali, periodici, fogli di estrazione liberale, che costituirono una rete che copriva tutta l’Italia e sulla quale si dovrebbe indagare. L’autore sottolinea anche che dopo la Liberazione, i grandi organi di stampa furono affidati ad esponenti liberali. Si può dire che questa situazione segnava un’egemonia dei liberali sulla carta stampata, una massiccia presenza che ebbe breve corso, anche se per molti anni la cultura liberale continuò ad influenzare il mondo del giornalismo. 

La straordinaria aggregazione realizzata da Pannunzio, che in termini marxisti si chiamerebbe “blocco intellettuale”, non fu altro che una chiamata a raccolta di intellettuali impegnati ma non organici e che nella loro maggioranza rimasero tali. Nicolosi ne ricostruisce gli itinerari individuali in entrata ed in uscita e li classifica secondo alcuni gruppi: vi erano i liberali antifascisti che costituivano il nucleo duro del giornale; un gruppo di coloro che erano stati precedentemente collaboratori di Pannunzio, in riviste da lui dirette; altri che avevano collaborato a riviste fasciste. L’individuazione del percorso seguito dagli esponenti di questo ultimo gruppo costituisce un ulteriore contributo di conoscenza alla storia della cultura. Sinora l’unico percorso di fuoriuscita dal fascismo noto era quello degli intellettuali che erano approdati al comunismo, nei confronti dei quali si è sostenuto in prevalenza che essi avrebbero ricevuto una “formazione all’interno del fascismo, il quale malgrado avesse sviluppato una cultura totalitaria era pur sempre una cultura di massa”.

Si proseguiva sostenendo che questi fossero già dei “frondisti di sinistra” ed in conseguenza, in coincidenza con la crisi del regime, si fossero alla fine orientati verso il PCI. Con l’adesione al partito avrebbero subito un “lavacro democratico”, così che i loro trascorsi furono per lungo tempo rimossi, mentre tutti gli altri, coloro che non furono colpiti dalla “grazia”, rimasero fondamentalmente degli “opportunisti” e degli “irredimibili” fascisti. Recenti incursioni di storici revisionisti hanno disvelato impietosamente quel passato negato, con indagini che hanno toccato anche alcuni “mostri sacri” dell’antifascismo, per arrivare alla conclusione che “erano tutti fascisti”, sia i comunisti che liberali. A seguire le storie personali che Nicolosi racconta siamo pervenuti a conclusioni diverse. Per quanto riguarda, infatti, quei soggetti che avevano collaborato a riviste fasciste e si erano, poi, “convertiti” al liberalismo, la ragione più plausibile riposa nel loro moderatismo, che li aveva convinti a rassegnarsi a convivere con le miserie del regime, all’interno di un sistema che sembrava senza alternative e tuttavia non rinunciando ad essere critici nei confronti di esponenti più radicali che aderivano alla cultura totalitaria.

Questi moderati avevano mal sopportato l’egemonia di questi ultimi e, quindi, uno sbocco liberale dovette sembrare loro più naturale, perché avrebbe sicuramente evitato loro di cadere in un’altra avventura autoritaria. Un caso esemplare è quello di Manlio Lupinacci, il quale come collaboratore del “Primato” era stato accusato, a causa delle sue opinioni moderate, di essere un liberale decadente da parte di Alicata, che divenne, poi, il capofila dei “redenti”, per adottare una definizione di Mirella Serri. Lupinacci era entrato per concorso come bibliotecario al Senato senza raccomandazioni politiche, ma dovette poi prendere la “tessera del pane”, anche se era di intime convinzioni antifasciste confessate ai suoi amici e per di più aveva una moglie ebrea. Le sue scelte nel periodo clandestino sono con esse coerenti, tanto che gli valsero la fiducia di Croce che gli affidò la direzione del “Giornale” di Napoli subito dopo la liberazione della città. Per chi lo ha conosciuto, non si può fare a meno di considerarlo un galantuomo, un uomo di raffinata cultura e un sincero liberale.

Con altrettanta precisione Nicolosi ci indica i nomi delle personalità in uscita dal giornale, in tempi diversi, e ne spiega le ragioni, come nel caso di Antonicelli, di Pepe, di Granata, di coloro che già nel 1946 andarono a sinistra, e di coloro che dettero vita alla scissione del 1947, come Carandini, Cattani, Storoni, P. Gentile, Mario Ferrara  e lo stesso Pannunzio. La defezione del gruppo di quelli che erano stati i principali fondatori e finanziatori ebbe serie conseguenze sul bilancio del giornale oramai in passivo. Ovviamente “Risorgimento Liberale” non poteva non risentire dell’abbandono del suo prestigioso regista, ma Nicolosi sostiene, e mi pare a ragione, che il dopo Pannunzio non fu una “storia minore”: non tutti i collaboratori lasciarono il giornale, se alcuni lo fecero per solidarietà con gli scissionisti, altri se ne distaccarono perché furono offerte loro prospettive più interessanti, ma non meno qualificanti furono gli arrivi, come quello di Leo Wollemborg, Carlo Emilio Gadda, per esempio.

Quando Pannunzio fondò “Il Mondo” attorno al periodico si formò un’aggregazione diversa: in parte fu costituita da ex collaboratori di “Risorgimento Liberale”, ma anche di ex azionisti, socialisti riformisti, repubblicani, con una formula di “terza forza”. Ma va anche considerata la circostanza che un gruppo di ex collaboratori di “Risorgimento liberale” si troverà con Ferruccio Disnan sulla “Tribuna” di Malagodi, come Manlio Lupinacci e Vittorio Zincone, insieme a molti altri nuovi esponenti del liberalismo, coordinati da una giovane redazione. Anche quel periodico attende un studioso che ne racconti la storia e forse ci accorgeremo che anche quella della “Tribuna” non fu una “storia minore” e come “Il Mondo” ha lasciato un vuoto che non è stato ancora colmato.