
Niente sviluppo e zero crescita finché a “governare” sarà il sindacato

27 Agosto 2010
La diatriba in atto tra Fiom e Fiat è l’immagine riflessa dell’attuale stato della politica italiana. Una parte di questa, infatti, concepisce e aspira a governare il Paese non come un servizio derivante da un mandato elettorale, ma come prerogativa conseguente a una non meglio specificata superiorità etica e intellettuale.
Lo si assiste in politica – esempio è l’iniziativa a favore del governo “tecnico”, e senza Berlusconi, che vorrebbero i partiti di minoranza – e sta capitando similmente nel mondo del lavoro e, più specificatamente, in quello delle relazioni industriali. Prendiamo Melfi: tre dei 50 operai scioperanti, tutti iscritti alla Fiom, vorrebbero dirigere le sorti degli oltre 1.700 dipendenti dello stabilimento Sata – e non solo ma di tutti i dipendenti Fiat, attuali e futuri – in virtù di una non meglio specificata superiorità, non solo nei confronti dei rispettivi colleghi lavoratori, ma anche nei riguardi dei lavoratori delle altre sigle sindacali (Cisl e Uil).
Che sia in politica o nelle relazioni industriali, questa peculiare “anomalia” tutta italiana mira al solo scopo di governare senza mandato rappresentativo. Melfi è soltanto l’ultima esperienza di scontro, in ordine temporale, tra un sindacato (la Cgil) e il governo. Sì, scontro con “il governo”. Perché in realtà, anche se la questione di Melfi (e quella di Pomigliano) potrebbe sembrare a prima vista svolgersi tutta all’interno di uno stabilimento industriale, essa è invece figlia dell’atavica diffidenza nei confronti di un governo che si è mostrato poco conciliante con il Sindacato (la Cgil) e suocera dell’avversione a Berlusconi che, con il Libro Bianco sul lavoro del 2001, ha voluto riformare, riportandoli nel giusto rango, i “ruoli” delle varie parti sociali (governo, parlamento, sindacati) superando il metodo della “concertazione” a favore del “dialogo sociale” di stampo comunitario.
Il diritto del lavoro italiano ha molti peccati da confessare. Alcuni di questi sono stati ricordati nei giorni scorsi in concomitanza con gli accadimenti di Pomigliano e Melfi. Ma ce n’è uno, di peccato, a discolparsi del quale dovrebbe essere la (vecchia classe) “politica” e non solo il diritto del lavoro: è quell’eccezionale deroga alla procedura di formazione delle leggi, cosiddetta “concertazione”.
Un metodo mediante il quale le Parti sociali (cioè le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori, i Sindacati, e dei datori di lavoro) partecipano al potere politico dello Stato, mediante un confronto con il governo, in genere prima della stesura di un testo normativo, finalizzato a una sorta di autorizzazione preventiva sui contenuti della nuova legge. A rendere ancor più grave il peccato della concertazione c’è il fatto che essa non è propria solo del diritto del lavoro, ma è utilizzata su tutti gli interventi di politica economica.
La concertazione nasce per risolvere i problemi della disoccupazione causati dalla crisi petrolifera (anni ’70). Non ha mai avuto un’istituzionalizzazione giuridica, ma è stata disciplinata dal Protocollo «Giugni» sul costo del lavoro del 23 luglio 1993. Si fonda su uno “scambio” politico: in cambio del preventivo consenso su alcuni interventi impopolari e onerosi soprattutto per i lavoratori, i governi hanno riconosciuto alle organizzazioni sindacali un ruolo stabile e di prima fila nel processo politico di elaborazione delle principali scelte di politica economica e sociale.
Il rischio della concertazione è quello di configurarsi come un vero e proprio “potere di veto” in mano al Sindacato. Infatti, stando alla sua procedura, l’atto legislativo non dovrebbe essere prodotto in caso di mancato accordo preventivo e unanime da parte dei Sindacati. Poteva succedere, ma così non è stato, per fare qualche esempio, in occasione della riforma della “scala mobile” nel 1984, quando il governo Craxi emanò comunque il provvedimento legislativo (decreto legge), nonostante avesse avuto un consenso limitato di Cisl e Uil, e non anche della Cgil (accordo di «S. Valentino» del 14 febbraio 1984). E’ stato questo il primo esempio di rottura della prassi di concertazione. Una rottura non incostituzionale, come dichiarato dalla corte Costituzionale investiva della questione di legittimità per presunta violazione del principio di libertà sindacale.
Da lì ad oggi, nessun governo si è mai rifiutato di praticare la concertazione. Finché è arrivato il Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001, in gran parte elaborato da Marco Biagi, che decreta la svolta: scompare la concertazione e nasce il “dialogo sociale”, sulla base dell’esperienza comunitaria. Il tono che cambia è quello del confronto tra governo e Parti sociali: un confronto più agile, da consentire una chiara distinzione delle reciproche responsabilità (governo, parlamento, sindacati). In tal modo, il confronto preventivo non rappresenta più l’obiettivo, ma diventa lo strumento per il conseguimento di obiettivi condivisi. Nulla di più di una consultazione lasciando però l’ultima parola ai governi, ossia la decisione di procedere o meno alla produzione di una certa proposta di legge, anche quando manchi l’unanime consenso dei sindacati. All’indomani del Libro Bianco, per fare qualche esempio, la Cgil si è rifiutata di sottoscrivere l’accordo sulla riforma del lavoro (2003) e quello sulle relazioni industriali (2009).
Il vero cambiamento, la vera rivoluzione che deve arrivare nella Cgil sta proprio in questo: ritornare nei giusti ranghi della rappresentanza dei lavoratori. Al Sindacato non spetta governare il Paese, né dare placet preventivi alla formazione delle leggi. Era un’anomalia e va corretta.
Ieri, a Rimini, l’ad della Fiat Sergio Marchionne, ha detto che "molto spesso le ragioni del declino sociale ed economico di un Paese hanno a che fare con ciò che non abbiamo saputo o voluto trasformare, con l’abitudine di mantenere sempre le cose come stanno". E’ vero. E’ un avvertimento e una speranza. Per la Cgil, per la Fiom, per i lavoratori, per le aziende, per la politica e per il Paese intero.