Nigeria, il lato oscuro della decolonizzazione

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Nigeria, il lato oscuro della decolonizzazione

03 Settembre 2010

17 stati africani nel 2010 celebrano i 50 anni dalla fine della colonizzazione europea: qualcuno, come il Gabon il 17 agosto, con parate militari, fuochi d’artificio e cerimonie fastose, altri, come la Repubblica Centroafricana il 13 agosto, in tono minore, in considerazione di situazioni sociali, politiche ed economiche tali da rendere i festeggiamenti a dir poco inopportuni. Non che le condizioni generali siano soddisfacenti in Gabon, ora guidato da Ali Bongo, figlio di Omar, deceduto quest’ultimo nel 2009 dopo 41 anni al potere; ma, se non altro, l’ultimo Indice di Sviluppo Umano compilato dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, lo colloca al 103° posto su 182 stati esaminati, vale a dire tra i paesi a sviluppo medio, mentre la Repubblica Centroafricana è quartultima.

Tra gli stati quest’anno al traguardo del mezzo secolo d’indipendenza vi è anche la Nigeria che si sta preparando per la ricorrenza, il prossimo 1° ottobre, e forse costituisce l’esempio che meglio illustra il dramma di un’epoca iniziata nell’euforia presto svanita di una svolta storica piena di promesse: all’epoca, tra i pochi pessimisti, uno, l’economista francese René Dumont, scrisse un libro dal titolo ritenuto da tutti immotivato e imbarazzante, “L’Afrique noire est mal partie”, l’Africa nera è partita male. La storia della Nigeria indipendente incomincia in effetti davvero male, con il milione di morti uccisi durante il tentativo di secessione del Biafra, la regione sudorientale abitata dall’etnia Ibo, e con un susseguirsi di cruenti colpi di stato che hanno via via portato al potere dittatori senza scrupoli e senza limiti nel dilapidare le immense ricchezze nazionali. Si dice che l’ultimo, il generale Sani Abacha in carica dal 1993 al 1998, in quel breve arco di tempo abbia sottratto alle casse statali e portato all’estero non meno di tre miliardi di dollari, forse addirittura quattro. Secondo la Commissione per i crimini economici e finanziari, istituita alcuni anni fa dall’allora presidente Olusegun Obasanjo, dall’indipendenza la corruzione ha sottratto ai fondi pubblici oltre 350 miliardi di dollari e rappresenta “il fattore che più ha contribuito al deprecabile stato in cui versa oggi il paese”.

Quanto deprecabili siano le condizioni di vita in Nigeria è provato da un dato che ha dell’inverosimile: nello stato per decenni maggior produttore di petrolio nell’Africa subsahariana (primato sottrattole due anni fa dall’Angola) il 70% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e il 92,8% con meno di due e questo nonostante che negli ultimi 12 anni l’apparato statale sia stato affidato a governi eletti democraticamente e almeno a parole impegnati a combattere malgoverno e corruzione. Né sono stati fatti nel frattempo passi avanti sensibili verso la formazione di un’identità nazionale e di un senso d’appartenenza capaci di unire i nigeriani al di là delle divisioni etniche e religiose. “We, the people of the Federal Republic of Nigeria…”, ‘noi, il popolo’ si legge nel preambolo della Costituzione, in vigore dal 1999, che afferma “fermamente e solennemente” l’impegno di “unità” e “armonia” di una “nazione sovrana, indivisibile e indissolubile, di fronte a Dio”. Ma nulla è più lontano dal vero. La Nigeria è una federazione di 36 stati popolata da quasi 150 milioni di persone, per la maggior parte delle quali l’appartenenza sacra e indissolubile è quella tribale. In tutto le tribù sono oltre 250 e altrettanti le lingue e i dialetti.

Lo stato permanente di conflitto inter e intra etnico, tipico delle economie di sussistenza africane, in Nigeria si polarizza in scontro tra il nord, popolato da etnie tradizionalmente dedite alla pastorizia, e il sud abitato in prevalenza da agricoltori. Con la scoperta al sud dei giacimenti di petrolio, il divario tra nord e sud è ulteriormente aumentato e con esso le tensioni. La conflittualità tribale è elevata anche nelle stesse regioni petrolifere dove tribù e clan si contendono l’accesso ai benefici apportati dall’industria estrattiva, e in generale nei contesti urbani, dove le etnie si disputano il controllo delle cariche pubbliche e delle attività economiche. Né l’Islam né il Cristianesimo sono riusciti a trascendere realmente l’appartenenza e i confini etnici. Al contrario, ne sono diventati una modalità. Le popolazioni del nord sono di religione islamica, nel sud prevale il cristianesimo. Per il 49% cento dei nigeriani quello evocato nel preambolo della Costituzione è il Dio di Maometto e per il 34% è il Dio cristiano.

Dal 1999 l’appartenenza religiosa è diventata anzi un fattore destabilizzante sempre più critico, con frequenti episodi cruenti che coinvolgono migliaia di persone e uno stillicidio di atti di violenza, e una nuova minaccia – l’islam integralista – si è abbattuta sui valori di unità, giustizia, uguaglianza e libertà proclamati nella costituzione, proprio pochi mesi dopo la sua adozione: 12 stati del nord hanno infatti imposto alla popolazione islamica il rispetto della shari’a, la legge coranica. Clamorosi da allora sono stati i casi di due donne – Amina e Safiya – accusate di adulterio, condannate alla lapidazione e salvate dalla mobilitazione internazionale. Ma le violazioni dei diritti umani in nome di Allah sono realtà quotidiana per decine di milioni di nigeriani devoti, o costretti a dimostrarsi tali, con il favore di tradizioni tribali che impongono anche alle etnie non islamiche istituzioni quali la poliginia, il prezzo della sposa, i matrimoni imposti e precoci, le mutilazioni genitali femminili.