No a Israele, sì a Siria e Iran. Erdogan toglie il velo in politica estera
31 Ottobre 2009
All’inizio di ottobre la Turchia ha respinto la partecipazione di Israele alla “Anatolian Eagle”, un’esercitazione dell’air-force turca che, dalla metà degli anni Novanta ad oggi, Ankara aveva tenuto ogni anno insieme ad Israele, NATO e Stati Uniti. Si è trattato della prima volta in cui il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), attualmente alla guida della Turchia, ha lasciato che la sua retorica sempre più anti-occidentale andasse a riversarsi sulla sua strategia in politica estera, con una mossa che sembra suggerire che non sia più il caso di dare per scontata una costante collaborazione della Turchia con l’Occidente.
Recep Tayyip Erdogan, Primo Ministro turco e leader dell’AKP, ha giustificato la decisione presa definendo Israele “un persecutore”. Ma, solamente un giorno dopo aver accantonato Israele, ha invitato la Siria – ben nota per le sue violazioni dei diritti umani – ad unirsi alle esercitazioni militari, annunciando inoltre la creazione di un Consiglio di Cooperazione Strategica con il regime siriano. E’ chiaro come si stiano verificando importanti cambiamenti nella politica estera della Turchia, che minano le fondamenta della cooperazione politica e militare che da 60 anni unisce Turchia ed Occidente. A partire dal 1946, quando la Turchia decise di allearsi con l’Occidente durante la Guerra Fredda – inviando più tardi anche delle truppe in Corea ed entrando a far parte della NATO – i vari governi turchi che si sono succeduti negli anni, hanno seguito una politica di stretta cooperazione con gli Stati Uniti e l’Europa.
La Turchia guardava il Medio Oriente e le altre nazioni del mondo dal punto di vista dei loro interessi interni di sicurezza nazionale. Questo ha reso possibile attività di cooperazione, persino con Israele, uno stato considerato dalla Turchia come un alleato democratico in una regione instabile. I due paesi condividevano preoccupazioni simili sul piano della sicurezza, come ad esempio quelle nei confronti del sostegno da parte della Siria ai gruppi terroristici all’estero – organizzazioni di estremisti palestinesi nel caso di Israele, ed il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) nel caso della Turchia. Nel 1998, quando Ankara ha affrontato Damasco riguardo al suo sostegno al PKK, sulle prime pagine dei giornali turchi, che sostenevano l’alleanza turco-israeliana, si poteva leggere: “Noi diremo “shalom” agli israeliani sulle alture del Golan”.
Il partito dell’AKP, tuttavia, guardava gli interessi turchi da un punto di vista differente – con sfumature dovute ad una presa di posizione religiosa, vale a dire all’Islamismo. Alti funzionari del partito hanno definito l’attacco statunitense del 2004 a Fallujah, in Iraq, “un genocidio”, e nel febbraio del 2009 Erdogan ha paragonato Gaza ad un “campo di concentramento”.
Ma la politica estera dell’AKP non ha riscontrato l’approvazione di tutti gli stati musulmani. Piuttosto, il partito ha riscosso solidarietà da parte dei regimi islamisti anti-occidentali (di Qatar e Sudan, ad esempio), mentre ha perso il sostegno dei governi musulmani laici e filo-occidentali (Egitto, Giordania e Tunisia). Questa strategia dal duplice effetto è particolarmente evidente nei territori palestinesi: nel momento stesso in cui il governo dell’AKP ha richiesto ai paesi occidentali di “riconoscere Hamas come legittimo governo del popolo palestinese”, i funzionari del partito turco hanno etichettato il Presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, come “capo di un governo illegittimo”. Secondo fonti diplomatiche, l’ultima visita di Abbas ad Ankara, nel luglio scorso, è stata un disastro – ed ora, sempre stando alle stesse fonti, pare che Abbas non si fidi dell’AKP più di quanto non faccia con Hamas.
Come dimostrato dalla cancellazione delle esercitazioni militari con Israele, la politica estera moralistica dell’AKP non è certo priva di ipocrisie. Un esempio recente è quello registrato lo scorso gennaio, quando il giorno dopo che Erdogan al World Economic Forum aveva accusato il Presidente Shimon Peres, così come gli Ebrei e gli Israeliani, di sapere “bene come uccidere”, la Turchia ha ospitato ad Ankara il vice Presidente sudanese Ali Osman Taha. Si tratta di una posizione pericolosa, in quanto suggerisce – soprattutto alle future generazioni sotto l’AKP – che i regimi islamisti da soli hanno il diritto di attaccare la propria gente e persino gli altri stati.
A settembre Erdogan ha preso posizione in difesa del programma nucleare dell’Iran, sostenendo che il problema del Medio Oriente sia l’arsenale nucleare di Israele. Alcuni analisti hanno considerato queste parole come retorica legata alla politica interna o semplicemente come un’esternazione di Erdogan in un impeto di collera. Ma in realtà Erdogan è un politico molto astuto, ed ora sta reagendo ai cambiamenti in atto nella società turca. Dopo sette anni di retorica islamista da parte dell’AKP, l’opinione pubblica ha cambiato idea circa la possibilità di un “mondo musulmano” politicamente unito. Stando ai risultati di alcuni sondaggi indipendenti in Turchia, il numero di persone che si identifica come musulmano è aumentato del 10% tra il 2002 e il 2007; inoltre quasi la metà degli intervistati si è descritta come islamista.
La politica estera dell’AKP attualmente riscontra il favore della gente a livello interno, tanto che è sempre più probabile che acquisti maggiore solidità. Dopo le pesanti affermazioni di Erdogan al Forum Economico Mondiale, in migliaia si sono riversati ad accogliere il suo aereo al ritorno a casa, in quella che è sembrata una riunione di benvenuto orchestrata. (Striscioni con la bandiera di Hamas e della Turchia unite insieme alla meglio sono apparsi dal nulla nel giro di poche ore).
La trasformazione dell’identità turca sotto l’AKP potenzialmente ha enormi ramificazioni. Continuando a seguire l’ottica islamista, diventerà sempre più difficile per la Turchia sostenere la politica estera occidentale, persino nel caso in cui farlo significherebbe curare i propri interessi nazionali. Il legame tra Turchia ed Israele – che da tempo rappresentava un modello di come un paese musulmano possa mantenere una relazione razionale di cooperazione con uno stato ebreo – continuerà ad allentarsi. Uno sviluppo in tale direzione sarà possibile solamente se l’opinione pubblica lo permetterà, andando ad aumentare ulteriormente la popolarità dell’AKP. E così il partito riuscirà ad ottenere due risultati con una sola mossa: allontanare il paese dai suoi precedenti alleati e consolidare la base del proprio potere.
Le stesse dinamiche andranno ad interessare le relazioni della Turchia con l’Europa e gli Stati Uniti. L’AKP ha una visione tattica della possibile adesione di Ankara all’Unione Europea: la incoraggia, infatti, solamente nella convinzione che possa apportare un sostegno popolare al partito, ma in realtà non ha alcuna considerazione strategica di un più stretto legame con l’Europa. E dunque l’AKP si mostra restio a mettere in atto le dure riforme, potenzialmente impopolari, richieste dall’Unione Europea, rendendo l’adesione della Turchia all’UE una realtà sempre meno probabile.
Inoltre affermazioni come quelle di Erdogan, che nel 2008 ha definito l’Occidente “immorale”, non fanno altro che erodere il sostegno popolare all’entrata del paese nella comunità: secondo stime dell’anno scorso, solo un terzo della popolazione turca era favorevole all’adesione, con una drastica riduzione rispetto all’80% di consensi che si registrava nel 2002, quando l’AKP giunse al potere. Nel frattempo, dal momento che gli Stati Uniti dedicano molte delle loro energie impegnate all’estero ai paesi musulmani, partendo dalla lotta agli estremisti fino ad arrivare all’opposizione al programma nucleare dell’Iran, l’AKP si opporrà a queste politiche americane attraverso una dura retorica e la decisione di non partecipare ad alcuna cooperazione.
In molti suggeriscono che l’ascesa dell’AKP al potere abbia rappresentato per la Turchia l’opportunità di “ricongiungersi al Medio Oriente” ed adottare sempre più un’identità islamica. La speranza era che questo cambiamento aiutasse a “normalizzare” la Turchia, ricalibrando le riforme nazionaliste e di laicizzazione di Kemal Ataturk, che aveva avvicinato la Turchia all’Occidente all’inizio del ventesimo secolo. Il risultato, tuttavia, non è stato poi così positivo. L’esperienza della Turchia con l’AKP dimostra come l’interferenza dell’islamismo nella politica estera del paese, dopo tutto, non sia poi così tanto compatibile con l’Occidente.
© Foreign Affairs
Traduzione Benedetta Mangano
Soner Cagaptay è Senior Fellow al Washington Institute for Near East Policy. E’ autore del libro "Islam Secularism and Nationalism in Modern Turkey: Who Is a Turk?".