No alla dittatura delle minoranze. Coi finiani o la pace o la guerra!
13 Agosto 2010
O la pace o la guerra. Meglio: la ricomposizione o la dissoluzione. Rare volte nella storia italiana recente le forze politiche si sono trovate davanti ad un bivio così drammatico. Prive di alternativa, devono scegliere tra le due estreme opzioni. E al più presto. In particolare quelle che si riconoscono nel centrodestra dove, a prescindere dalla “nuova” questione morale deflagrata con la potenza di un’arma atomica, la contesa politica, se non risolta, in un senso o nell’altro, rischia di mandare al massacro il Paese. Insomma, se una minoranza s’è messa in testa di squassare la maggioranza a cui pure dice di appartenere, di tenere sotto schiaffo il governo, di affossare quel poco di bipolarismo faticosamente conquistato a prezzo di tanti sforzi, chi a tutto questo si oppone non può essere provocatoriamente e brutalmente liquidato come “mazziere” soltanto perché intende esercitare fino in fondo il suo legittimo diritto a difendere il mandato popolare ottenuto.
E’ con qualche sollievo, pertanto, che vediamo spuntare una sia pur minima (e per ora flebile) prova di armistizio tra i duellanti. La proposta formulata da Berlusconi, configurante un vero e proprio patto di legislatura con la componente finiana, non poteva davvero essere respinta riottosamente. L’ala “dialogante” di “Futuro e libertà” ha raccolto l’invito, smentendo coloro i quali irresponsabilmente, per motivare il loro rifiuto avevano aggiunto ai punti del documento berlusconiano, tratti peraltro dal programma elettorale da tutti sottoscritto, temi lanciati come sassi all’indirizzo di una politica di confronto. Che cosa c’entrino con quanto è sul tavolo della trattativa argomenti quali lo stato dei rapporti del premier con Putin e Gheddafi, il conflitto d’interessi, il testamento biologico (che divedeva e dividerà), perfino l’acquisto della casa di Arcore, ognuno è in grado di capirlo: assolutamente niente. Materiale di risulta di una campagna condotta da una sinistra disperata il cui unico collante è stato appunto l’antiberlusconismo, gettato nella contesa per ostruire definitivamente la via dell’interesse comune a non far precipitare ancora di più la situazione.
C’è del genio anche nel distruggere. E quando le minoranze si mettono in testa che possono determinare i destini politici di un Paese, anche a costo di essere travolte ma con la certezza di una palingenesi che le vedrà certamente risorgere come la fenice, è difficile, anzi impossibile, riuscire a ricomporre alcunché. Perciò se Fini, tanto per uscire dal vago, si farà trascinare dagli incendiari è di tutta evidenza che non vi sarà futuro (men che meno libertà) per il suo gruppo, mentre verrà messa seriamente a repentaglio la stabilità del Paese. Insomma, non si può da un canto raccogliere l’invito a superare le incomprensione e dall’altro subissare chi si fa promotore di una proposta più che ragionevole di malevolenze attinte all’armamentario dei nemici di sempre. Anche a non voler tener conto delle scombiccherate controproposte avanzate, come si fa ad accettare il linguaggio che è stato usato per negare ogni spiraglio di utile confronto tra le parti? E coloro i quali si sono esibiti negli ultimi giorni nel rimestare antiche e più recenti accuse a Berlusconi ed ai suoi collaboratori di partito e di governo si sono resi conto con loro hanno convissuto, mai alzando un sopracciglio, per sedici anni, senza trovare nulla da eccepire, anzi difendendoli dagli attacchi che ricevevano? E’ possibile che la politica in Italia sia diventata di così basso livello, al punto che la critica o è totalmente distruttiva o non viene accettata dagli stessi che poi se ne fanno paladini come di un diritto non espletato al fine di costruire qualcosa di positivo, ma per affossare il competitore? E’ un modo barbaro di ragionare.
Perciò, al punto in cui la situazione si è cristallizzata, ai lealisti non rimane altro che prendere atto dello stato dell’arte e sulla base del “rilancio” del Cavaliere cercare opportune intese con chi ha intenzione non soltanto di discutere nel merito delle questioni, ma anche di cercare possibilmente approdi che facciano andare avanti la legislatura, considerando fuori da ogni logica di maggioranza tutti coloro che sembrano non interessati alla ricomposizione. Se questo scenario dovesse dimostrarsi irrealistico, si rompano gli indugi e si torni alle urne. Accada quel che deve accadere. Alla facile obiezione di chi dice che non si può ricorrere al volto per liberarsi di un alleato scomodo, è altrettanto facile rispondere che quando l’alleato rompe il patto che lo lega agli elettori e scompone di fatto la maggioranza di cui fa parte, altra via non c’è. Speriamo non ci si arrivi, naturalmente, perché sarebbe un trauma comunque per la società italiana che vive tempi difficili. Ma neppure così è possibile procedere. Le dittature delle minoranze sono perniciose per le nazioni che si assuefanno alle logiche che le legittimano. Lo diceva un grande giurista, ingiustamente dimenticato, si chiamava Alfredo Rocco e vi assicuro che se ne intendeva. Curiosamente espose la sua teoria dallo scranno più alto di Montecitorio, quando era presidente della Camera ed il movimento a cui apparteneva non si era ancora trasformato in regime. Chi l’avrebbe detto, vero?
Conoscere la storia per decifrare il presente è molto più utile di quanto si immagini. C’è invece che chi si abbarbica alla cronaca dimostrando la propria inanità a pensare in grande; a pensare, per esempio, che le accuse rivolte in questi giorni al premier, ai ministri, al governo in genere non accrescono certamente la reputazione dell’Italia all’estero. E questi sarebbero i nuovi apostoli di una futuribile politica che dovrebbe avere (ma certamente mi sbaglio) nel culto della nazione le sue radici?
O la pace o la guerra. E finiamola qui.