No mas De La Hoya: guantoni al chiodo per il “Golden Boy” della boxe

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No mas De La Hoya: guantoni al chiodo per il “Golden Boy” della boxe

17 Aprile 2009

The Proud of East L. A. ha detto stop. Una decisione (immaginiamo) sofferta ma assolutamente responsabile: Oscar De La Hoya ha manifestato qualche giorno fa l’intenzione di abbandonare l’attività professionistica, a poca distanza dalla sonora batosta rimediata da Manny Pacquiao. La notizia, subito rimbalzata in ogni angolo del globo, ha destato grande sconforto negli appassionati ma anche, ed è doveroso sottolinearlo data la caratura dell’atleta in questione, un malcelato senso di sollievo: vederlo, infatti, nelle spoglie di vittima sacrificale alla consacrazione definitiva di quel fuoriclasse che pure è il filippino è stato un brutto, bruttissimo spettacolo, soprattutto agli occhi di quanti lo ricordano come uno dei migliori interpreti del boxing professionistico di questi ultimi tre lustri.

Certo, viene da pensare che il miglior De La Hoya un incontro così forse non l’avrebbe perso o, quantomeno, che ci sarebbero stati margini per sperare di assistere davvero al Dream match del quale si era parlato, anzi, strombazzato alla vigilia; ma la realtà è stata che il pugile di Los Angeles, visto al cospetto del fighter asiatico, è sembrato né più né meno l’ombra del grande atleta che tutti gli appassionati ricordiano. Lento, prevedibile, del tutto incapace di far valere, se non la maggior freschezza fisica, quantomeno i fattori dell’altezza e dell’esperienza, il “Golden Boy” ha dovuto sottostare all’onta dell’abbandono dopo aver subito un’autentica lezione per otto lunghe riprese, proprio lui che, in un passato assolutamente prossimo, era stato capace di infliggere agli avversari durissime punizioni e di scrivere alcune delle pagine più entusiasmanti del pugilato moderno.

Per fortuna questa sconfitta non è occorsa invano e l’“uomo” De La Hoya, all’età agonisticamente importante di 36 anni, si è reso conto, con realismo e onestà, che era arrivato il momento di appendere i guantoni al chiodo per non inficiare un curriculum sportivo che rimarrà, ne siamo sicuri, difficilmente eguagliabile. Sei titoli mondiali, seppur di sigla, conquistati in sei categorie di peso diverse (dai superpiuma ai medi) tra i professionisti, ai quali vanno ad aggiungersi l’alloro olimpico ottenuto nel ‘92 a Barcellona, oltre che il Golden Glove e l’iride tra i dilettanti (un’avventura, quella in maglietta, chiusa con lo stupefacente score di 223 vittorie e 5 sconfitte).

A quanti potrebbero obiettare che 6 battute d’arresto in 45 match possano costituire un limite significativo nell’elevarlo al rango di fuoriclasse assoluto, si può facilmente controbattere ricordando che De La Hoya, nel corso della sua carriera, ha affrontato ben 25 pugili campioni del mondo, tra i quali, per citare i più conosciuti, Julio Cesar Chavez, Pernell “Sweet Pea” Whitaker, Ike “Bazooka” Quartey, Felix “Tito” Trinidad, Shane “Sugar” Mosley, Fernado “Ferocious” Vargas, Bernard “The Executioner” Hopkins, Floyd Mayweather e, appunto, Manny Pacquiao. Un percorso sportivo, insomma, assolutamente stra-ordinario, soprattutto tenendo in considerazione il fatto che nella boxe dei nostri giorni sembra purtroppo sempre più imperare la logica dei match “cuscinetto” e delle carriere costruite a tavolino.

Si renda allora il giusto tributo a questo ragazzo di umilissimi origini, che nel corso di quasi un quarto di secolo è stato in grado di raggiungere i traguardi più prestigiosi senza mai esimersi da qualsivoglia prova del fuoco, e che ha saputo distinguersi anche al di fuori delle dodici corde, vincendo un grammy musicale nel 1999 con un album di grande successo, impegnandosi (non solo finanziariamente) nella lotta contro il cancro e affermandosi negli ultimi tempi come uno dei più importanti organizzatori sportivi con la sua Golden Boy Promotions.

Siamo sicuri: al pugilato mancherà.
Grazie, Oscar.