Nolte sugli States esagera, ma non aveva tutti i torti
29 Marzo 2009
di Daniela Coli
L’intervista di Luigi Iannone a Ernst Nolte (Le Lettere 2008), recensita su queste pagine da Beppe Benvenuto è stata seguita da un interessante intervento di Michela Nacci, che si conclude con la domanda sul perché negli Stati Uniti “fu possibile percorrere il confronto con la modernità, con la tecnica, le masse, la cultura di massa senza Führerprinzip, razzismo e campi di concentramento”. La geografia dà risposte più eloquenti di qualsiasi retorica storiografica: gli Stati Uniti sono una nazione-continente protetta da due oceani, mentre la Germania si trova in Europa e, come tutte le nazioni europee dopo la prima guerra mondiale ebbe timore del bolscevismo, individuato da Nolte come causa principale del nazismo. Per il razzismo, anche gli Stati Uniti, purtroppo, non ne sono stati immuni: conosciamo le condizioni di apartheid dei neri fino agli anni ‘60 e l’ondata antisemita culminata nell’esecuzione dei Rosenberg. Occorre infine chiedersi, come lo storico britannico Tony Judt in Postwar: a History of Europe since 1945, cosa sarebbe accaduto negli Stati Uniti se avessero subito invasioni straniere, avessero avuto la guerra in casa e una sconfitta che li obbligava a cambiare sistema politico, come accadde alla Germania nel ’18. Sono interrogativi non banali e l’ondata antifrancese americana di qualche anno fa, il boicottaggio dei prodotti francesi e la furia popolare contro qualsiasi parola francese per il rifiuto francese di partecipare alla guerra in Iraq possono darci qualche idea di cosa accada a una nazione traumatizzata e come possa gettarsi in guerra senza riflettere.
L’antiamericanismo europeo nel ‘900 non coinvolse solo l’Italia fascista e la Germania nazista, ma anche la Francia, secondo Nacci, che nella Barbarie del comfort presenta nella Francia degli anni trenta gli stessi stereotipi antiamericani dell’Italia fascista contemporanea, analizzati precedentemente, per cui si potrebbe arrivare alla conclusione, come è stato osservato, che tra l’Italia mussoliniana e la Francia degli anni trenta non vi era alcuna differenza o che la presenza della dittatura fascista non fu decisiva per l’antiamericanismo, poiché gli stereotipi sull’America erano simili. Un’analisi dell’antiamericanismo europeo senza una salda conoscenza della storia e delle relazioni internazionali di entrambi i continenti in Africa, Asia e Medio Oriente rischia di essere impressionistica. Emilio Gentile, nel saggio Impending modernity: Fascism and the ambivalent image of United States pubblicato nel 1993 dal “Journal of Contemporary History”, ricorda come con la dottrina Monroe del 1823 – ripresa da Theodor Roosevelt – gli Stati Uniti dichiararono di non tollerare alcuna interferenza delle potenze europee sull’intero continente americano, di aspirare alla dominazione del mondo e di essere pronti a mobilitare tutte le risorse per espellere l’Europa dai territori extraeuropei. Da questa prospettiva, in un’Europea indebolita dalla prima guerra mondiale e dominata dal capitale finanziario americano, gli stereotipi antiamericani sono facilmente spiegabili. L’Europa occidentale dopo il 1918 dovette fronteggiare anche la minaccia della Russia bolscevica, la madre di tutti i partiti comunisti europei e l’insicurezza per le interferenze di due nazioni come gli Stati Uniti e l’Urss pesò nell’involuzione autoritaria.
In ogni caso, per comprendere il senso dell’antiamericanismo europeo dell’intero ‘900, non solo relativo agli anni trenta e non solo relativo a italiani, tedeschi e francesi, ma anche agli inglesi dopo il ’45, nonostante la special relationship, occorre tenere presente il ruolo imperiale globale degli Stati Uniti. La Gran Bretagna non partecipò alla guerra del Vietnam, una guerra tutta americana, e per anni più vicini si pensi solo alla recente opposizione tory alla nomina di Ted Kennedy a cavaliere per i finanziamenti americani al terrorismo irlandese degli anni ’70 e ’80. Chi conosce la Gran Bretagna sa quali battute corrosive sugli americani circolano e l’espressione popolare “per fortuna, ci separa un oceano dagli Stati Uniti” è fin troppo chiara. Occorre tenere conto che l’America è il risultato della più grande impresa di colonizzazione europea, come ricorda Hannah Arendt in On revolution, e gli Stati Uniti devono all’Inghilterra la prosperità che dette loro la possibilità di diventare nazione. Per quanto riguarda l’antiamericanismo della Francia nel secondo dopoguerra, dal Vietnam alla guerra in Iraq, non è certo il risultato di una nazione antimoderna, antitecnologica, antidemocratica e illiberale, ma piuttosto della guerra d’Indocina sostenuta dalla quarta repubblica dal ’46 al ’54: i francesi non hanno dimenticato le armi fornite dagli americani ai vietminh attraverso i cinesi e il rifiuto statunitense di inviare truppe, nonostante il diretto invito francese a intervenire. Purtroppo, come disse Condy Rice, citando una massima del realismo politico europeo, le alleanze cambiano e gli interessi permangono: per questo, pensare di eliminare un sano antagonismo tra Europa e Stati Uniti è utopistico e neppure auspicabile per entrambi i continenti. La sinistra veltroniana ha scoperto l’America dopo la caduta del muro di Berlino e a volte si comporta come l’intellettuale di Moretti in Caro Diario che s’innamora di Beautiful e si mette a filosofare sulle soap. Insomma, contrordine compagni, tutti a Hollywood! Il dramma sono gli intellettuali ex-marxisti che discutono di liberalismo e di democrazia, come prima parlavano di socialismo e comunismo e non sono in grado di argomentare una posizione politica e perfino un giudizio estetico senza aggrapparsi a Locke, Hume o a Tocqueville. Puntano il ditino, gridando “illiberale!” come prima gridavano “individualista!”. Per fortuna, in questo paese esistono i bastian contrari che andavano negli States e li amavano, quando l’intellettuale medio di sinistra non andava più in là di Parigi e discettava sull’America senza conoscerla.
Forse Nolte esagera a definire “semplicistica” l’America del Nord, ma purtroppo il paese più tecnologizzato del mondo è stato incapace di difendere lo spazio aereo di New York e Washington e la raffinatezza tecnologica dell’intelligence statunitense non è stata in grado di impedire l’11 settembre. Una fiducia quasi mistica nella tecnologia ha eluso di affiancarle i più banali e complementari controlli umani e questo pone qualche problema sulla cultura americana. Dopo l’11 settembre si sono sprecati gli articoli americani di lode per l’Italia, perché conosce l’identità degli ospiti degli hotel e ha norme antiterrorismo per gli affitti. Prima le nostre misure di sicurezza erano ritenute antimoderne e prese in giro come le piume dei bersaglieri. Dopo l’11 settembre sono state prese misure per il traffico aereo e l’ingresso negli States, ma la metropolitana di San Francisco ha solo controlli elettronici e percorrendola si pensa che un eventuale terrorista sarà ripreso dalle telecamere e arrestato, ma questo non ci assicura che sarà fermato da un poliziotto prima di compiere un attentato. L’esercito più tecnologizzato del mondo pare incapace di controllare l’Iraq, che non è certo la Germania di Hitler, e questo induce a non liquidare i dubbi di Nolte come pensieri di un ottantenne reazionario e antiamericano. Il Times ha riportato con la consueta misurata ironia la notizia che il consigliere speciale del generale Odierno era una bionda agente dell’intelligence britannico. Lo stesso crack iniziato il 15 settembre del 2008, che ha sconvolto il capitalismo finanziario e l’economia globale, causato dai subprime, è derivato da un giudizio eccessivamente ottimista e poco approfondito della finanza americana sulla reale solvibilità dei cittadini a cui venivano concessi mutui. Prodi, non etichettabile come reazionario, in una conferenza economica a Oxford, ha dichiarato che neppure a Sassuolo avrebbero preso sul serio i subprime. Per arginare la più grave crisi economica dal ’29, l’America è diventata neoprotezionista e statalista e il problema per le esportazioni europee è adesso la difesa del modello liberale. Dagli americani Obama viene ritenuto europeo perché mangia la rucola e non è un complimento, come non lo è per New York a cui l’americano medio preferisce Washington. Purtroppo tra l’America di Hollywood e la realtà c’è qualche differenza: basta pensare agli splendidi attori hollywoodiani e al fenomeno americano dell’obesità, che include ogni etnia, sesso, strato sociale, età. Quindi il problema è quello di una valutazione realistica degli States, senza pregiudizi ma anche senza miti.
L’antiamericanismo è dunque un fenomeno dell’intero ‘900, non è relativo alla sola Europa, né circoscritto agli anni trenta – basta considerare il periodo della guerra fredda – e viene considerato dagli storici un effetto collaterale del ruolo egemonico degli Stati Uniti e non una categoria fondante del fascismo e del nazismo. La fusione di antiamericanismo e antimodernismo in categoria fondante del fascismo è la risposta di Paolo Rossi negli anni ’80 all’interpretazione defeliciana della funzione modernizzatrice del fascismo. Come è noto, le critiche dei marxisti a De Felice raggiunsero l’apice con la mostra sugli Anni Trenta organizzata dal comune di Milano nel 1982. Per i marxisti nostrani il fascismo rappresentava la reazione del capitalismo arretrato contro la modernità del comunismo, necessaria conclusione dialettica del capitalismo sviluppato e illuminato. Una variante di questa tesi è quella di Paolo Rossi, che identifica modernità e illuminismo e ritiene il fascismo l’antimodernità, anzi la rivolta contro la scienza e il mondo moderno. In Paragone degli ingegni moderni e postmoderni del 1989 Rossi accusa di filofascismo De Felice per avere parlato del Mussolini rivoluzionario, considera Papini e Prezzolini cavalieri dell’Apocalisse ( sempre con l’A maiuscola), Evola il principe del male e si lancia in una crociata contro Cacciari perché studiava Schmitt e contro Heidegger, senza considerare che negli States negli anni Ottanta si studiava Schmitt e Heidegger come Foucault e Derrida. Evola ebbe un ruolo marginale nel fascismo, non comparabile a quello di Gentile, convinto come Hannah Arendt, non certo fascista, che Marx fosse hegeliano e come la Arendt criticò la rivoluzione francese e l’illuminismo.
Nell’opera di Gentile è però difficile trovare una parola contro il pensiero moderno. I più importanti filosofi moderni, Cartesio e Hobbes, filosofi-scienziati, tutt’altro che critici nei confronti della scienza, ritengono importante il progresso tecnico-scientifico, ma non credono comporti il progresso morale e politico. Popolo pragmatico, gli americani impressionarono gli inglesi alla Great Exibition di Londra del 1851 per le mietitrici, le serrature, i prodotti di gomma e le pistole di Samuel Colt, che narrava felice nel suo padiglione come con la sua pistola quindici Rangers del Texas avessero ucciso ben ottanta indiani Comanche nel 1844. Insomma, la famosa sei colpi Colt era lo strumento ideale per consentire il trionfo su “barbari” e “selvaggi” e diffondere la civilizzazione. Quando in una gara nautica lo yacht America sconfisse il britannico Titania aggiudicandosi quella che diventerà poi famosa come l’America’s Cup, la stampa british scrisse: “L’America ci sorpasserà a meno che noi non acceleriamo la nostra velocità”. Pace ai nostri americani immaginari, la potenza del “Colosso”, come lo chiama Niall Ferguson, alle origini fu una faccenda di velocità e di Colt.