Non basta Michael Moore a spiegare Virginia Tech
17 Aprile 2007
In America tutto è più grande, più estremo, appassionato, vitale e violento che altrove.
Il senso del dovere e quello della ribellione, il patriottismo e l’individualismo, l’appello a Dio e il traffico col diavolo. Se in Italia le Università sono luoghi di noia e frustrazione, in America sono piccole città fatte della stessa pasta della vita, con gli stessi orrori e meraviglie. Se in Italia abbiamo il bullismo e il filmatini pruriginosi su you-tube , nelle scuole americane ci sono stragi “monumentali” senza nome e senza ragione.
La vita quando è libera ed esposta a tutti i venti e a tutte le suggestioni del mondo produce geni e mostri, ingloba tutto il meglio e tutto il peggio che trova e che è umano: l’amore, l’odio, la violenza, la tenerezza. Tutto al grado estremo della sensibilità di un paese che si è fatto diapason dei tempi. Quando la vita è chiusa e rancida produce lagne e malesseri di routine.
Non siamo qui a dire che invidiamo all’America, Virginia Tech e Columbine, ma per dire che la invidiamo nonostante quelle. Siamo senza fiato al pensiero del dolore dei familiari e amici dei ragazzi uccisi da un folle mentre progettavano la loro vita futura nel miglior cantiere dell’eccellenza americana. Ci piacerebbe immaginare che le scuole, i luoghi di istruzione, fossero come sacri e avessero un magico statuto di inviolabilità che bandisse odii e violenze dai loro confini. Sarebbe giusto. Ma non c’è più nulla di inviolabile: non templi o chiese, non feste sportive né asili d’infanzia, non resti storici e neppure il proprio stesso corpo quando si suicida uccidendo. Il dolore per i morti di Virginia Tech è palpabile e sparso per il mondo come le provenienze delle vittime. Ma non ci consolano d’un’oncia le spiegazioni sociologiste che appaiono sempre così zoppe e incomplete, quasi infantili, davanti al mistero della mente umana e dei suoi abissi.
Il ritratto di un’America violenta e disperata, che magari si vuole far corrispondere in termini di psicologia di una nazione al “pantano” iracheno, ci pare meschino e degno di vivere meno della pagina di giornale su cui è scritto (ed è stato molto scritto). Allo stesso modo non persuade l’indice puntato contro la disponibilità di armi e la polemica sul secondo emendamento che dice inviolabile il principio di possedere e portare armi. Certo in America è più facile che altrove portarsi a casa una pistola. Ma è solo una scorciatoia alla determinazione assassina che si rivela in queste mattanze. Senza quello il gioco diverrebbe appena un po’ più complicato, forse più intrigante o magari più orribilmente creativo.
Il Canada celebrato da Michael Moore come il paese delle porte aperte e del bando alle armi ha avuto episodi simili: nel 1989 a Montreal, la più europea delle città canadesi, un uomo armato di fucile e senza porto d’armi uccise 14 studentesse dell’ École Polytechnique. E basterebbe conoscere un po’ d’America che non sia New York o San Francisco per capire il legame che gli americani hanno con le armi e l’idea dell’autodifesa. Quella gran parte del paese dove lo sceriffo più vicino ci metterà un giorno a venirti in aiuto e tu e la tua famiglia potete contare solo su quel fucile appeso all’uscio in caso di pericolo. In realtà non c’è consolazione ed è inutile cercarla sui terreni della logica o della recriminazione. Queste cose continueranno inspiegabilmente ad accadere ma i migliori giovani del mondo continueranno spiegabilmente a scegliere le Università americane per costruirsi una vita senza paura di trovarci la morte.