Non c’è una strategia per il dopo Gaza

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Non c’è una strategia per il dopo Gaza

Non c’è una strategia per il dopo Gaza

03 Agosto 2025

Ci sono immagini che bruciano più di mille analisi. Quelle dei corpi scheletrici degli ostaggi israeliani ancora prigionieri di Hamas, diffusi in questi giorni, sono un pugno nello stomaco che interroga le coscienze – se ne sono rimaste – di chi, in Europa, vagheggia il riconoscimento dello Stato di Palestina come gesto diplomatico urgente, simbolico, necessario.

Il problema è che il simbolo è sbagliato. Perché quegli ostaggi, ancora vivi – o meglio: ancora in vita – non sono solo un crimine in corso. Sono il riflesso di una realtà che la diplomazia europea non riesce o non vuole guardare: il “due popoli, due Stati” è stato rovesciato, tradito, strumentalizzato. E in questa nuova, tragica stagione, fingere che nulla sia accaduto significa non solo premiare chi ha distrutto la speranza, ma mettere a repentaglio anche ciò che resta del diritto internazionale.

La verità è che Hamas ha usato per anni il linguaggio della causa palestinese per delegittimare l’Autorità Nazionale Palestinese e sabotare ogni ipotesi negoziale. Lo ha fatto con la violenza, certo, ma anche con astuzia: ha costruito potere attraverso il welfare, ha imposto un controllo militare su Gaza, ha usato i tunnel e i bambini come strumenti di propaganda. E nel frattempo, in nome della resistenza, ha sfigurato ogni orizzonte di pace.

Ma non è colpa solo di Hamas. Anche la destra israeliana ha scelto per anni di giocare col fuoco. Dopo il ritiro unilaterale da Gaza voluto da Sharon nel 2005, anziché lavorare a un rafforzamento di Ramallah, ha preferito la logica del divide et impera: indebolire l’Autorità Palestinese, lasciare che Hamas si finanziasse grazie ai suoi sponsor del Golfo, fare in modo che il “partner” in Cisgiordania sparisse. Una mossa tattica divenuta boomerang strategico.

Oggi, nel mezzo del caos, Israele si trova a gestire un paradosso: combatte Hamas, ma garantisce corridoi umanitari per nutrire una popolazione ostaggio del terrore; difende i propri civili, ma lo fa con l’immagine logorante di chi colpisce in una zona densamente abitata. Eppure, nonostante tutto, mantiene – con fatica, con frustrazione – una postura da Stato democratico sotto attacco. Il fatto che i camion di aiuti internazionali entrino a Gaza con il via libera di Tel Aviv non è irrilevante. È semmai il segno che Israele, pur nella rabbia e nel lutto, non ha rinunciato a distinguere tra civili e carnefici.

E l’Europa? L’Europa recita un copione fuori tempo. Macron, Starmer, Scholz parlano di due Stati come se nulla fosse accaduto dal 7 ottobre in poi. Come se non ci fosse stato un pogrom, come se il volto della Palestina fosse ancora quello della diplomazia, e non quello delle milizie islamiste. Si possono difendere i diritti del popolo palestinese. Si può esigere da Israele limiti e responsabilità. Ma è insensato riconoscere oggi, in questa congiuntura, una sovranità che Hamas può usare come riscatto politico per le sue atrocità.

La verità è che manca una strategia per il “dopo-Gaza”. Manca un piano per la ricostruzione, per il disarmo, per la ricomposizione politica del fronte palestinese. Manca anche un’onestà di fondo: se davvero si vuole tornare a parlare di due Stati, allora bisogna dire chi rappresenterà lo Stato palestinese, con quali garanzie, con quale sicurezza per Israele. E soprattutto: con quali condizioni.

Condizionalità, dunque. È questa la parola che l’Europa dovrebbe recuperare. Nessuna statualità, senza la fine del terrorismo. Nessun riconoscimento, senza la liberazione degli ostaggi. Nessun processo politico, senza una vera discontinuità da chi ha sacrificato i propri bambini per far fallire gli Accordi di Abramo. Il Medio Oriente non è materia da buoni sentimenti: è un teatro che richiede lucidità, coraggio e verità. La verità, oggi, è che la pace non si costruisce premiando chi vuole sabotarla.