Non chiedete a Tocqueville di salvarvi dal Cav.
24 Maggio 2008
Ogni volta che una coalizione di centro-destra ottiene la maggioranza dei suffragi elettorali e il governo che ne è l’espressione si accinge a fare il suo mestiere, quello di reggere il timone dello Stato e di presentare leggi alle Camere, la political culture egemone in Italia leva regolarmente il suo grido di dolore per il vulnus inferto alla democrazia dal paese gregario ed ‘eterodiretto’ (l’<autobiografia della nazione>), che avrebbe ricacciato nell’ombra l’opinione pubblica libera e responsabile. In questi casi, c’è un nome che torna spesso, quello del conte Alexis de Tocqueville, l’aristocratico liberale che ,con la sua messa in guardia dalla ‘tirannia della maggioranza’, contenuta nella Democrazia in America del 1835 (e condivisa dal suo corrispondente inglese John Stuart Mill) avrebbe previsto, inascoltata Cassandra, le derive populistiche della democrazia moderna e, in particolare, potrebbe aprire gli occhi della gente sui guasti provocati dal berlusconismo in Italia.
Non tocca certo allo studioso il ruolo di difensore d’ufficio del PdL e delle sue misure governative. Ogni governo può proporre leggi discutibili : il problema è quello di stabilire se tali leggi siano leggi incostituzionali—e in tal caso sarà
Se si vanno a rileggere le pagine—capitoli VII ed VIII del libro primo, parte seconda—del capolavoro tocquevilliano dedicato al tema in questione, infatti, non si può non concludere, dipietrescamente, : <che c’azzeccano> con la critica, peraltro legittima (ci mancherebbe altro!) mossa dai Rodotà, dai Ruffolo, dall’elite intellettuale post-azionista e post-comunista, a Berlusconi, al suo stile di governo, ai suoi disegni politici? A ben riflettere, ci troviamo in presenza di un’appropriazione indebita che si fonda su una serie di equivoci o di rimozioni che proviamo ad elencare, a volo d’uccello.
–Di quale democrazia si sta parlando? Innanzitutto,il tema della tirannia della maggioranza’ rinvia a una concezione della democrazia—che Tocqueville fa propria anche se con la rassegnazione del membro di una classe sociale sconfitta dalla storia—come registrazione della ‘volonté de tous’ e non come marchingegno istituzionale inteso ad elevare ‘intellettualmente e moralmente le masse’e, pertanto, di segno positivo solo se favorisce l’avanzata del progresso e quindi dei partiti che se ne fanno portatori (la democrazia come espressione della rousseauiana ‘volonté générale’). <L’impero morale della maggioranza—scrive il Conte—si fonda, in parte, sull’idea che vi sia più cultura e più saggezza in molti uomini riuniti che in uno solo, nel numero, più che nella qualità, dei legislatori. E’ la teoria dell’uguaglianza applicata all’intelligenza.|…| L’idea del diritto che ha la maggioranza, per la sua cultura, di governare la società, è stata portata nel territorio degli Stati Uniti dai primi abitanti. Quest’idea, che da sola basterebbe a creare un popolo libero, è oggi passata nei costumi, e la si ritrova persino nelle più piccole abitudini della vita. |…| L’impero morale della maggioranza si fonda anche su questo principio: che gli interessi della maggioranza devono essere preferiti a quelli della minoranza>. E’ la liquidazione sia dello ‘stato etico’ sia di una concezione della democrazia restia a <mettere tutti i valori e tutti gli interessi sullo stesso piano> (affidandone la sorte al gioco elettorale) ma costantemente protesa ad assegnare allo Stato il compito di promuovere gli uni e di far retrocedere gli altri, all’interno di una impegnativa filosofia della giustizia sociale.
–Quale dispotismo?La ‘tirannia della maggioranza’ è il dispotismo di un potere <legittimo> non la prepotenza di un orda barbarica al quale soltanto l’ignoranza e l’incoscienza degli elettori hanno consentito la <conquista dello Stato>.<Considero empia e detestabile questa massima: che in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto, e tuttavia pongo nelle volontà della maggioranza l’origine di tutti i poteri. Sono forse in contraddizione con me stesso? Esiste una legge generale che è stata fatto, o almeno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia. La giustizia rappresenta, dunque, il limite del diritto di ogni popolo. Quando, pertanto, rifiuto di obbedire a una legge ingiusta, non nego affatto alla maggioranza il diritto di comandare; faccio appello soltanto dalla sovranità del popolo alla sovranità del genere umano>. E ancora. <Quando vedo accordare il diritto e la facoltà di far tutto a una qualsiasi potenza, si chiami essa popolo o Re, democrazia o aristocrazia, sia che lo eserciti in una monarchia o in una repubblica, io affermo che là è il germe della tirannide; e cerco d’andare a vivere sotto altre leggi>. Invano, in questa liberalissima denuncia degli effetti indesiderati del governo del popolo, si cercherebbe una qualche idea di ‘usurpazione’, di un’investitura pubblica dovuta all’irruzione dall’esterno di un ‘corpo estraneo’ ovvero di un attore che, barando al gioco e mettendo in campo risorse non politiche, sia riuscito, come il pifferaio magico, a portare un paese sull’orlo della perdizione ovvero della dittatura. E’ l’homo democraticus <causa del suo mal> non un perfido Lucignolo ‘sceso in campo’ per abbindolarlo.
I deboli e i forti. Gli intellettuali che, come Norberto Bobbio, vedono in Berlusconi il nuovo duce, in virtù della sua concezione personalistica della lotta per il potere e quindi temono, sopra ogni altra cosa, l’esautoramento del legislativo, ridotto a una camera di ratifica (e di applausi al leader carismatico), sembrano ignorare che Tocqueville, con la tesi della ‘tirannia della maggioranza’, evidenziava l’esatto contrario, ovvero il declino inarrestabile del potere dell’esecutivo. Non a caso citava le parole di Jefferson, <il più valido apostolo che la democrazia abbia mai avuto>:<il potere esecutivo, nel nostro governo, non è il solo, né forse il principale oggetto della mia preoccupazione. La tirannide dei legislatori è attualmente, e sarà per molti anni ancora, il pericolo più temibile>. Senza un <potere esecutivo che abbia una forza sua propria, e un potere giudiziario indipendente dagli altri due poteri>,commentava, in un sistema politico, vi sarà sempre <estrema libertà> ma <scarsa garanzia contro la tirannide>. Esecutivo e giudiziario non sono semplici, neutrali, bastioni contro l’irruzione della volontà popolare: sono bastioni aristocratici che preservano le ‘ragioni del passato’, non rimettono in moto il treno della democrazia che una maggioranza semincosciente, asservita al privilegio, tenta di arrestare.
—Quale conformismo? Com’è noto,nella ‘Democrazia in America’, si legge un giudizio terribile sul conformismo dell’uomo medio americano—un giudizio che ancora oggi manda in visibilio i critici della mass society e del mercato.<In America, la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’ambito di questi limiti, lo scrittore è libero; ma guai a lui se osa uscirne. Non ha da temere un auto-da-fé ma è esposto ad avversioni di ogni genere e a persecuzioni quotidiane. La carriera politica gli è chiusa: ha offeso la sola potenza che abbia la facoltà di aprirgliela. Gli si rifiuta tutto, perfino la gloria.|…| Catene e carnefici sono gli strumenti grossolani che la tirannide usava un tempo; ma ai nostri giorni la civiltà ha perfezionato perfino il dispotismo, che pure sembrava non avesse più nulla da imparare.|…| L’Inquisizione non ha mai potuto impedire che circolassero in Spagna libri contrari alla religione della maggioranza. L’impero della maggioranza opera meglio negli Stati Uniti: essa ha tolto persino il pensiero di pubblicarne>. Dire che il quadro è pessimistico è dir poco, ma, ancora una volta, cosa c’entra con le vicende politiche del nostro tempo? L’opinione pubblica conformista temuta da Tocqueville è, per così dire, endogena, nasce dal basso e diventa sempre più forte negli Stati Uniti <popolati da uomini uguali tra loro> dove,a differenza che in Europa, <non si trova ancora un dissidio naturale e permanente tra gli interessi dei suoi diversi abitanti>. In America, il senso comune fa paura ma è genuino, non è plasmato da poteri occulti o da classi privilegiate che contrabbandano i propri interessi come ‘bene collettivo’.E’ il potere anonimo delle folle a inquietare l’animo dell’aristocratico e, semmai, i vecchi ‘poteri forti’—l’élite in declino federalista ,hamiltoniana e madisoniana— rappresentano i sempre più deboli frangiflutti di una marea inarrestabile.
I contravveleni. Ciò che maggiormente stupisce nell’appropriazione indebita del tema tocquevilliano della ‘onnipotenza della maggioranza’ è, tuttavia, la mancata riflessione sugli antidoti che , nell’America del Nord, per il Conte ne contrastavano gli effetti. Il primo antidoto riporta a una interpretazione del liberalismo lontana anni luce dallo Stato raddrizzatore dei torti sociali, ‘termine fisso d’eterno consiglio’ degli intellettuali di sinistra per i quali più diritti ci sono—e più aumentano le competenze dello Stato incaricato di farli valere—più ci si avvicina al migliore dei governi possibili.<In nessuna delle repubbliche americane il governo centrale si è mai occupato d’altro che di un ridotto numero di problemi, la cui importanza attirava i suoi sguardi.|…| La maggioranza, pur divenendo sempre più assoluta, non ha mai accresciuto le attribuzioni del potere centrale; essa si è limitata a renderlo onnipotente nella sua sfera. Così il dispotismo può essere molto pensante su un punto, ma non può estendersi a tutti gli altri>. E’ lo ‘stato minimo’ che hanno in mente i giuristi e i filosofi politici che hanno ‘riscoperto’Tocqueville? Per contrastare l’onnipotenza dei più, bisogna ridurre drasticamente l’area d’intervento della sfera pubblica? Se la natura di una malattia si comprende anche dal suo rimedio, è giocoforza concludere che sotto la stessa denominazione—‘tirannia della maggioranza’—si nascondono ieri e oggi cose tanto diverse da ridurne l’uso a un mero topos retorico. Se ne ha una riprova inoppugnabile in un passo decisivo dei capitoli in esame, nel quale si ritrova una tesi, non poco imbarazzante per quanti citano con leggerezza Tocqueville, che vede nella stabilità del diritto civile—e quindi nel conservatorismo giuridico—il rimedio cruciale contro le prevaricazioni del legislativo.<Gli Americani, che hanno tanto innovato la loro legislazione politica, non hanno introdotto che leggeri cambiamenti, e con molta difficoltà, nelle loro leggi civili, benché parecchie di queste leggi ripugnino fortemente alla loro condizione sociale. Questo deriva dal fatto che, in materia di diritto civile, la maggioranza è sempre obbligata a rimettersi ai legisti, e questi, lasciato al loro arbitrio, non fanno innovazioni>. E’ un brano, quest’ultimo, che porta allo scoperto una contrapposizione radicale e avant lettre alla filosofia del diritto, sempre più diffusa nelle scuole italiane, che affida al potere discrezionale dei giudici, in quanto interpreti dello spirito ‘avanzato’ delle costituzioni moderne, la missione di arginare le pulsioni qualunquistiche e illiberali delle maggioranze al servizio dei biechi interessi delle classi privilegiate. In realtà, Tocqueville apprezzava i giudici americani proprio per le ragioni opposte: essi gli apparivano come l’unica aristocrazia possibile del Nuovo Mondo e il loro ‘stare a destra’(la parola non è sua, ovviamente, ma non ne tradisce il pensiero) gli pareva la difesa più sicura della libertà e dei diritti che, come liberale, gli stavano a cuore.
Se Tocqueville avesse letto nell’articolo di Stefano Rodotà, L’eguaglianza e le tasse. Si rischia il ritorno allo Stato censitario (‘Aprile’n. 129, ottobre 2004), che <la definizione di proprietà che può essere oggetto di tutela pubblica, è ciò che residua dopo che l’obbligazione fiscale è stata adempiuta> avrebbe ascritto tale tesi al dispotismo della democrazia che eleva non i diritti individuali ma la <solidarietà> a <elemento costitutivo dell’organizzazione sociale>.
Ognuno, beninteso, ha il diritto di pensare e di agire come crede. Ciò che scriveva Tocqueville centosettant’anni fa potrebbe indurre a non considerarlo più un affidabile maitre-à-penser del <liberalismo dei contemporanei> e a ritenere, invece, che l’interpretazione progressista della democrazia e del diritto esprima, assai meglio della Democrazia in America, gli interessi e i valori dell’uomo del terzo millennio. Ma se tutto questo è vero, che senso ha tirare in ballo Tocqueville ogni volta che si criticano—come è lecito e necessario in una società libera—la filosofia e i programmi politici di un governo che non piace? Non basta condividere con il gran normanno le apprensioni per la ‘tirannia della maggioranza’ se poi non si specifica: a) chi è il tiranno (un avventuriero venuto da fuori o un’autorità legittima portata a prevaricare?); b) in cosa consiste la tirannide (nell’aumentare a dismisura il numero delle leggi civili o nel violare le norme costituzionali di una libera democrazia?); come si può combatterla (dando più poteri di veto ai giudici conservatori o affidando ai magistrati progressisti l’<interpretazione evolutiva> delle norme costituzionali?) Se manca l’accordo sui contenuti, ognuno può condannare la ‘tirannide della maggioranza’così come condanna il furto e l’omicidio.
I classici sono patrimonio comune del ‘genere umano’: sarebbe auspicabile che si rinunciasse finalmente ad arruolarli negli eserciti che,<l’un contro l’altro armato> ,competono per il potere.