
Non ci rendiamo conto di cosa sta per arrivare

10 Aprile 2020
Non credo ci si renda conto di quello che sta per arrivare. Sì, c’è chi parla di una crisi più grave di quella del 2008, chi di economia di guerra, ma i più si limitano a fare previsioni sui numeri del prodotto interno, del rapporto deficit/pil o debito/pil, come se riguardasse qualcun altro.
Prima di dire la mia, lasciatemi fare una premessa. Ho sempre sostenuto che il debito pubblico non fosse un’entità contabile o economica, ma piuttosto politica, tanto nelle sue cause, quanto nei suoi “effetti”. Basti pensare, ad esempio, al ruolo che la spesa pubblica ha sempre avuto sul consenso elettorale. Non per nulla si dice che Keynes sia diventato l’economista più amato dai politici e, aggiungerei, da coloro che beneficiano della spesa, professori di economia in primis.
Comunque, sono gli effetti politici di un forte debito pubblico che dovrebbero spingerci a non farne troppo: tra questi, in primis, la perdita di sovranità che potrebbe derivarne. Già John Adams, 2° Presidente degli Stati Uniti, scriveva che: “Ci sono due modi per conquistare e sottomettere una nazione ed il suo popolo. Uno è con la spada, l’altro controllando il suo debito”.
Per queste ragioni, fare deficit di bilancio, quindi debito, per me era accettabile solo in funzione “anticiclica”, giammai quando l’economia tirava per distribuire a destra e manca risorse (inesistenti) per finalità di mero consenso elettorale. Purtroppo l’Italia per decenni ha fatto proprio questo. A chi mi rispondeva con le teorie Keynesiane del moltiplicatore (mal comprese) per giustificare l’andazzo, rispondevo chiedendogli perché mai allora l’Italia non fosse diventata la nazione trainante l’economia mondiale. Semplificazione per semplificazione ovviamente.
Ecco perché oggi siamo in balia dei mercati, o meglio, sottoposti al giudizio severo di migliaia di investitori ai quali ci rivolgiamo perché abbiamo bisogno di pagare stipendi, pensioni, sanità, interessi, e poco altro per la verità. Da soli non ce la facciamo. Siamo deboli a causa del nostro debito monstre.
Oggi, però, siamo in un periodo assolutamente straordinario e sono pochi, come dicevo, ad aver chiaro che nei prossimi mesi affronteremo una crisi economica molto grave come conseguenza del blocco della produzione e dei consumi, e che cosa essa significhi. Un po’ tutti continuiamo a sperare in interventi statali che possano quasi neutralizzare gli effetti pratici e ci auguriamo di continuare a fare affari come prima. Ma ci illudiamo. Perché quello che accadrà – e accadrà velocemente – è inevitabile.
Per prima cosa saranno tagliati tanti posti di lavoro nel settore privato quanti mai nell’ultimo secolo. Poi seguirà il resto: contrazione dei consumi, insicurezza, paura e soprattutto una forte insofferenza della categoria dei produttori (tra i quali comprendo i dipendenti del privato) nei confronti di coloro che, per qualche tempo ancora, saranno visti come dei privilegiati sia perché estremamente garantiti, sia perché scarsamente produttivi ed efficienti, mi riferisco ai dipendenti pubblici.
La risposta degli Stati nazionali, sacrosanta in questa situazione di straordinaria gravità, introduce un altro tema che rischia letteralmente di esplodere: quello del debito tanto pubblico quanto privato post emergenza. La risposta degli Stati, ripeto sacrosanta in questa fase, si fonda sul presupposto – non dimostrato – che la crisi sarà molto contenuta nel tempo e che la concessione di finanziamenti garantiti dallo stato servirà a risolvere gran parte dei problemi del sistema economico, senza tenere in debita considerazione, però, che la quasi certa deflazione che seguirà, trasformerà il debito in una vera e propria arma letale puntata contro tutti noi.
Esistono in questo momento strade alternative a quella intrapresa sulla liquidità delle imprese (sempre che l’iniezione non arrivi troppo tardi come purtroppo il decreto del governo fa presumere)? Non credo. A meno di non vagheggiare soluzioni alla “pasto gratis per tutti” come lasciano intendere quelli che dicono che ci vorrebbe un Piano Marshall per l’Italia. Si sappia però che quel Piano, cui fanno riferimento, erano denari che arrivavano “da fuori” (politicamente non erano per nulla gratis) non per risollevarci dalla guerra, ma per evitare che cadessimo nelle grinfie sovietiche. Da quale “fuori” oggi dovrebbero arrivare? Dalla UE forse? Spero non dalla Cina.
E perché mai l’UE dovrebbe “regalare soldi” all’Italia? Ne saremmo tutti ben felici ma è irrealistico per diverse ragioni. La prima attiene alla ormai compromessa credibilità istituzionale del nostro Paese dimostrata anche dalla discutibile “qualità” della nostra spesa pubblica e finanche dei processi di spesa. Secondo voi, un qualsiasi italiano che produce reddito e che paga le tasse, se potesse rifiutarsi, pagherebbe il conto dei “navigator”, dei prepensionamenti, di Alitalia e di tanti altri sprechi per cui l’Italia è famosa? Io no, se potessi! Allora perché dovrebbe farlo uno che non è neppure italiano? Ma quando anche un leader lo volesse fare, pensate che l’opinione pubblica di quel Paese non gli si rivolterebbe contro, soprattutto in questo momento di crisi?
Qualcun altro, invece, spera di risolvere tutto uscendo dall’euro e mettendo su una bella grande stampante a colori di banconote di vario taglio, facendo credere di poter così mantenere tutte le nostre vecchie abitudini di spesa, anzi migliorandola perché potremmo stampare soldi all’infinito e in qualsiasi quantità. Insomma “fatti una zecca tutta tua” sarebbe il sogno di tutti i politici di sinistra e di destra.
Perciò non resta che una cosa per salvare questo benedetto Paese e salvarci tutti. Ad emergenza finita sarà inevitabile impugnare il bisturi e rimuovere tutti i problemi strutturali che rendono non competitivo il nostro sistema economico. Se non lo faremo, e non credo che lo faremo, con il debito pubblico alle stelle, il Pil alle stalle ed il debito privato delle aziende al più alto livello della storia, sarà giocoforza saltare tutti per aria.