Non è certo il 25 luglio ma Renzi è sempre più solo
09 Febbraio 2017
No, forse non è il 25 luglio, non siamo all’ordine del giorno Grandi, la cui approvazione segnò la caduta di Mussolini. Il povero Renzi non è certo il duce, benché uno dei suoi soprannomi ricorrenti sia stato “il ducetto di Rignano sull’Arno”, causa decisionismo esibito e voglia di occupare tutto lo spazio di potere e di visibilità che si potesse occupare. I suoi mille giorni a Palazzo Chigi non sono paragonabili al Ventennio fascista, e la riforma della Costituzione su cui alla fine si è fermata la sua corsa non tendeva a sovvertire il sistema democratico, casomai a trasformare l’intero paese in una regione rossa, dove il governo non fosse più contendibile.
Però il documento firmato dai 41 senatori del Pd (la notizia è nella colonna delle news) testimonia una volontà liquidatoria, una insofferenza nei confronti di una leadership più subìta che scelta, che dimostra ancora una volta che in politica gli errori si pagano eccome. La vittoria è di tutti, la sconfitta è del leader, perché il partito deve sopravvivere, deve superare l’impasse, e nessuno ha voglia di condividere fino in fondo le velleità di rivincita del suo segretario. Il Pd resta, nonostante tutto, un grande partito con una lunga storia (del Pci si diceva: “viene da lontano e va lontano”) che non può totalmente aderire a un’avventura tutta personale come è quella di Renzi.
I 41 senatori non appartengono solo alla minoranza, dentro c’è un po’ di tutto, e sono guidati da una figura simbolica come Tronti e da Vannino Chiti, che al referendum hanno entrambi votato Sì. Cosa chiedono? Di appoggiare il governo a guida Pd, prima di tutto, quel governo Gentiloni fotocopia del precedente, che si trova a dover affrontare le emergenze del paese, dal disastro ambientale del centro Italia al disastro nei conti prodotto proprio da Renzi, dai rapporti difficili con l’Europa, al nuovo quadro geopolitico che si è determinato con Brexit e la presidenza Trump. Lasciamo lavorare il nostro governo, è, in sintesi, la richiesta dei 41, nel frattempo si fa la legge elettorale omogenea che chiede Mattarella, e tutti noi tiriamo il fiato e riflettiamo.
Intanto D’Alema ha preso la rincorsa, mettendo la minoranza bersaniana in condizione di non poter più tacere o solo mugugnare, e obbligandola a prendere posizioni più esplicite, mentre il gruppo parlamentare, in cui i franceschiniani sono assai forti, è in sommovimento continuo, e cerca punti di riferimento, come il ministro Orlando.
Bersani chiede prima la legge elettorale e poi il congresso, Emiliano attacca e chiede il congresso tout court, e Renzi vede la prospettiva delle elezioni farsi sempre più vaga e lontana. Il suo punto di forza, il rapporto diretto con i cittadini, è logorato, e gli italiani rischiano di trovare Gentiloni forse un po’ moscio ma tanto riposante; cercare di accusare l’Europa serve sempre meno a nascondere la responsabilità di aver varato una finanziaria folle al solo scopo di vincere il referendum.
Mancano ancora cinque giorni alla Direzione allargata, a cui parteciperanno anche i segretari regionali. E per allora, o Renzi fa uscire un coniglio dal cappello, oppure dovrà accettare duri compromessi. Non sarà l’ordine del giorno Grandi, no, ma Renzi è sempre più solo.