Non è con la dietrologia di Repubblica che riformeremo la giustizia civile
26 Agosto 2010
L’eccessiva durata dei processi civili, manifestazione sintomatica evidente della crisi di questo settore della giustizia italiana, impone l’analisi e la soluzione di temi numerosi e di complesse questioni che, per loro natura, postulano un approccio lungimirante ed indagini scientifiche non limitate solo alle discipline giuridiche. La difficoltà di trovare soluzioni ampie ed articolate è testimoniata dalla moltiplicazione dei c.d. “riti speciali”, caratteristica prevalente della legislazione degli anni ’70, ripresa con la fallimentare esperienza del c.d. “rito societario” introdotto dal D.Lgs. 5/2003 ed abrogato – dopo soli sei anni – dalla legge 18 giugno 2009 n. 69 e dalle numerose “novelle”, “riforme” e mini riforme processualcivilistiche che si sono susseguite a partire dal 1990.
Il già ricco panorama di interventi legislativi protesi al tentativo di risolvere le emergenze, ma già per questo destinati a non affrontare “le ragioni più profonde e reali della disastrosa situazione della giustizia civile”, che devono essere individuate “sul piano strutturale e fondamentalmente nell’enorme sproporzione tra il numero delle cause ed il numero dei magistrati che dovrebbero deciderle” , con tutte le necessarie implicazioni sottese a tale individuazione, sembrerebbe destinato ad arricchirsi di un ulteriore provvedimento normativo.
Nel mese di luglio 2010, infatti, il Governo ha prima presentato e poi ritirato un piano straordinario per la riduzione del contenzioso civile, che, nelle stime del Ministero della Giustizia, doveva interessare circa 1.608.000 processi (cifra raggiunta sulla base del numero di anni di pendenza, almeno tre, nei primi due gradi di giudizio escludendo i processi in corso davanti ai giudici di pace) pendenti in primo e secondo grado (Tribunale e Corte d’Appello) e destinati ad essere definiti in tre anni dall’entrata in vigore della misura.
Il provvedimento, presentato alla 5a commissione permanente come emendamento del Governo nell’ambito della approvazione del progetto di legge di conversione del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 , recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, prevedeva, in sintesi, che fino al 31 dicembre 2015, nei procedimenti civili contenziosi di competenza del tribunale e della corte d’appello in cui le parti ne avessero fatta concorde richiesta ed in quelli la cui trattazione fosse stata dichiarata prioritaria dal presidente di ciascun tribunale e di ciascuna corte d’appello nell’ambito di un apposito programma stilato al principio di ciascun anno, il giudice avrebbe potuto nominare un ausiliario per la sollecita definizione della controversia.
Gli ausiliari – scelti da un apposito albo, formato da magistrati onorari, anche se cessati dal servizio da non più di cinque anni, avvocati con anzianità di iscrizione all’albo di almeno cinque anni, notai, anche collocati a riposo, magistrati ordinari, amministrativi e contabili collocati a riposo, avvocati dello Stato collocati a riposo e docenti o ricercatori universitari di materie giuridiche, anche collocati a riposo – una volta accettato l’incarico, avrebbero dovuto depositare una relazione contenente la sintetica esposizione dei fatti oggetto di causa nonché una proposta di decisione, che, avrebbe potuto essere accettata o no dalle parti. In caso di accettazione della proposta di decisione l’accordo avrebbe avuto gli effetti di una conciliazione giudiziale (già prevista dal vigente codice di procedura civile), per i diritti disponibili mentre, nel caso dei diritti non disponibili, qualora il giudice avesse ritenuto l’accordo condivisibile nel merito e conforme a legge, ne avrebbe disposto l’omologazione, provvedendo alla cancellazione della causa dal ruolo.
Ove, invece, la proposta dell’ausiliario fosse stata rifiutata da una delle parti, nel caso in cui il giudice avesse definito il giudizio in conformità alla proposta, avrebbe potuto condannare la parte che non aveva aderito, anche se vittoriosa, al pagamento dell’indennità dovuta all’ausiliario. Se, invece, il provvedimento che definisce il giudizio non fosse stato corrispondente al contenuto della proposta, l’indennità dovuta all’ausiliario sarebbe stata posta a carico dello Stato. L’emendamento, come si è detto, è stato ritirato dal Governo e, come ognun vede, non aveva certamente il pregio (ma forse non aveva neanche l’ambizione di farlo) di agire su un piano strutturale di soluzione del problema.
Perché parlarne, allora? Perché in un articolo pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 23 agosto 2010, a firma della giornalista Liana Milella, dal titolo «Per salvare il Lodo, 5 milioni di cause a rischio» e dall’eloquente occhiello «Così il Cavaliere vuol evitare il pagamento del risarcimento Mondadori», è scritto che, in questi ultimi giorni, il Ministro Alfano ed il Presidente del Consiglio Berlusconi avrebbero manifestato l’intenzione di riproporre il piano straordinario, lasciando di fatto inalterato il progetto già contenuto nell’emendamento di cui abbiamo ricordato gli elementi più rilevanti.
Ma se il progetto del Governo è quello contenuto nell’emendamento presentato in Commissione Bilancio al Senato non si capisce perché le cause di tanti cittadini siano a rischio e, soprattutto, in che modo “il Cavaliere” potrebbe riuscire ad evitare (non rinviare o procrastinare, ma proprio evitare) il pagamento del risarcimento Mondadori. In realtà, infatti, nel progetto dell’esecutivo non si prevede né “macerazione” né “pesante compromissione” di alcun procedimento civile e men che meno è prevista una norma che possa far legittimamente sorgere in qualcuno la speranza di evitare una condanna.
Altrettanto oscuri sono destinati a restare i motivi della paventata incostituzionalità della figura dell’ausiliario, anch’essa ipotizzata nell’articolo con un virgolettato che riporta le parole della capogruppo PD al Senato Silvia Della Monica e della capogruppo PD alla Camera Donatella Ferranti. Non è dato sapere perché, infatti, l’ausiliario che non è chiamato a svolgere funzioni giurisdizionali dovrebbe essere una “figura incostituzionale” quando, invece, tutt’altro che incostituzionale è stata la figura dei Giudici Onorari Aggregati della legge 22 luglio 1997 n. 276 (legge che istituì le sezioni stralcio nei Tribunali ordinari con il conclamato obiettivo di consentire la definizione delle cause di c.d. “vecchio rito” pendenti innanzi al Tribunale entro il termine massimo di cinque anni), G.O.A. che invece (essi sì!) hanno svolto la funzione giurisdizionale nonostante l’art. 102 della Costituzione.
Non è scopo degli autori di questo breve intervento addentrarsi nei meandri di una discussione che ha già coinvolto l’Organismo Unitario dell’Avvocatura e che, per l’ampiezza dei temi coinvolti, mal si presta ad essere affrontata ed esaurita sulle pagine di un giornale. Ma rimaniamo fermamente convinti di quanto dicevamo all’inizio: la situazione in cui versa la giustizia civile impone lo studio di soluzioni lungimiranti oltre che un confronto sereno, consapevole ed articolato di tutte le forze a qualunque titolo coinvolte. Non è certo con “dietrologie” maliziose, come quelle ipotizzate senza fondamento da “Repubblica”, che si potrà creare il clima di collaborazione utile per venir fuori da una situazione strutturale della Giustizia obiettivamente grave e molto difficile da sostenere per un Paese, come l’Italia, che è stata culla del Diritto e che soffre di un ritardo non più tollerabile.