Non è con la retorica sul Risorgimento che il Sud diventerà più moderno

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Non è con la retorica sul Risorgimento che il Sud diventerà più moderno

03 Luglio 2010

La decisione di mobilitare la Rai, gli storici, organizzare convegni, pubblicare libri con grandi recensioni sui giornali, per fare conoscere agli italiani la storia del Risorgimento, ripete l’illusione ottocentesca di forgiare patrioti insegnando la storia. Con l’hegeliano Cousin la storia diventò la regina delle scienze in Francia. Il nation-building francese non si esaurì, però, nelle aule scolastiche. Fece la Parigi attuale, costruita dal barone Haussman, la capitale indiscussa della Francia. Londra era stata distrutta e ricostruita tante volte, era diventata una metropoli moderna e Napoleone III volle fare lo stesso di Parigi, con una rivoluzione urbanistica che modernizzò la città dalla rete idrica e fognaria al grande piano regolatore edilizio.

La Parigi di oggi con le grandi piazze, i grandi parchi, i boulevards, che tutti conosciamo non esisteva fino all’Ottocento. Il segno delle trasformazioni di Parigi è la statua di Enrico IV, costruita nel XVII secolo, buttata giù dalla rivoluzione, ricostruita nel 1818 e messa a Pont Neuf, come simbolo di riconciliazione nazionale con il ritorno di Luigi XVIII. Anche la Francia ha una storia complicata: la rivoluzione, la repubblica, l’impero, poi di nuovo la monarchia, la repubblica, l’impero, infine la repubblica attuale con un presidente monarca eletto dal popolo.

Non fu la rivoluzione a creare l’identità francese, perché i suoi simboli– il tricolore e la presa della Bastiglia – furono interiorizzati dalla maggioranza dei francesi tra il 1870 e il 1914. Più della scuola, contò la leva di massa e la modernizzazione: dalla bicicletta al treno. Fino al 1870, la maggior parte dei contadini francesi, una moltitudine di comunità separate l’una dall’altra e isolate, non parlava francese, aveva propri dialetti, credenze, usanze. Il grande storico Eugen Weber ha ricostruito in Peasants into Frenchmen: the Modernization of Rural France 1870-1914  come i contadini divennero francesi. Poiché i contadini non erano colti, non scrivevano, ha setacciato anche gli archivi delle parrocchie, dove i sacerdoti prendevano nota di quanto accadeva. Eugen Weber dimostra che nel 1783 i contadini francesi credevano che il suono delle campane proteggesse i campi dalla grandine durante i temporali e i parroci erano disperati per questa superstizione. La rivoluzione eliminò i preti, senza capire molto della religiosità dei contadini.

Diversamente da quanto si è creduto in Italia per molto tempo non fu la rivoluzione a creare l’identità francese – si pensi alla polemica marxista sul Risorgimento come rivoluzione mancata, alla quale rispose acutamente Rosario Romeo – ma piuttosto, come dimostra Weber, dalla bicicletta, inventata in Francia nel 1860, che aiutò parecchio a rompere  l’isolamento dei contadini. Il Secondo Imperò fallì però sulle ferrovie: fu soprattutto l’inefficienza delle ferrovie francesi nei confronti di quelle tedesche a provocare la sconfitta di Napoleone III nella guerra franco-prussiana del 1870 e la disfatta di Sedan. Nonostante la grande impresa ottocentesca di fare i francesi, nonostante la leva di massa, la mobilità e la possibilità di arrivare a Parigi, avessero acceso  l’orgoglio nazionale, la débâcle della linea Maginot nel 1940 si concluse con l’armistizio di Pétain e con De Gaulle a Londra:  già dissanguati da secoli di guerre, i francesi decisero di non versare una goccia di sangue e di accordarsi con chiunque avesse vinto.

La decisione dei paesi fondatori dell’Europa di mettere in comune nel 1951 l’acciaio e il carbone segnò la fine del conflitto secolare tra francesi e tedeschi per le miniere della Ruhr e dell’Alsazia-Lorena. Chi si è immaginato un’Europa unita, dove gli Stati non si facessero più guerre, non ha però deciso di sopprimere le identità nazionali, la cui competizione è anzi necessaria per non fare del Continente un museo.

In Italia, il presidente Ciampi e adesso Napolitano, due uomini di sinistra, hanno capito la necessità che “il popolo di sinistra”, come lo chiama Repubblica, si riconciliasse con la nazione e hanno usato il linguaggio e i temi che un nonno usa con nipotini abituati alle favole. Poiché il fascismo era stato nazionalista, si è scelto il Risorgimento per rilanciare il sentimento nazionale e in questa operazione la Lega ha avuto una funzione positiva, come ha compreso Marcello Veneziani. Da quando Bossi ha cominciato a sparlare del tricolore e a minacciare la secessione, è tutto uno sventolare di bandiere, l’inno nazionale cantato a ogni occasione, un’esplosione di patriottismo e di difesa dell’unità, con la Lega dipinta come la strega che vuole avvelenare Biancaneve. La storia del Risorgimento può essere raccontata in tanti modi, ma in definitiva l’Italia ottocentesca, non diversamente dalla Francia, tentò dei giocare le sue carte secondo le regole del tempo e partecipò alla prima guerra mondiale, una grande esperienza, come pensava Gentile, per un paese unificato da poco e da pochi.

La guerra è un momento tragico, ma porta il soldatino meridionale accanto al settentrionale e dalle trincee Gentile sperava potessero uscire uomini nuovi. The Pacific di Spielberg, il film sulla guerra americana nel Pacifico, mostra la guerra sul serio: i soldati americani allucinati come i soldati tedeschi: la loro vita dipende da quella del compagno d’armi accanto e dalla morte del nemico dalla parte opposta, anche lui un soldatino allucinato gettato nella fornace della storia.  Nessun sistema politico si è dato tanto da fare per nazionalizzare le masse come il fascismo:  l’esaltazione del Risorgimento, il tricolore, le adunate, le colonie, il mito di Roma, ma anche l’uso della cultura, dei manifesti, dei cinegiornali, del cinema, della radio. Le vicende della seconda guerra mondiale hanno indotto spesso gli intellettuali a domandarsi se l’Italia esisteva ancora come nazione e da anni si parla d’identità, come se l’Italia fosse una signorina viennese col complesso di Edipo. Mentre gli intellettuali discutevano tra loro, nel secondo Novecento, la televisione – già la maledetta televisione – ha unificato nel bene e nel male gli italiani da Nord a Sud, le auto e le autostrade li hanno rimescolati, il benessere li ha fatti diventare alti: un popolo di contadini, infine, ha cominciato a viaggiare e adesso li trovi dovunque per il mondo.

L’amore non basta a far funzionare un Paese e sventolare l’inno, gridare al lupo a chiunque parli di federalismo o di eliminare le spese eccessive, che aumentano il nostro debito e ci azzoppano, non è un grande amore. Se la Fiat non riesce a ridurre l’assenteismo a Pomigliano D’Arco, come tante altre imprese italiane deve andare a produrre altrove e i nostri governi devono chiudere un occhio sull’immigrazione, anche se nei quartieri poveri produce spesso degrado e insicurezza,  mentre nelle zone bene la gente colta con la colf extracomunitaria magnifica il multiculturalismo. Così, il problema attuale non sono tanto le imprese di Garibaldi in Sicilia, ma le élite palermitane che non provvedono alla spazzatura o agli antichi e bellissimi palazzi di Corso Vittorio Emanuele non ancora restaurati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Il nostro Sud è bellissimo, pieno di brava gente, ma ancora con troppi Gattopardi, troppi letterati che provano compiacimento solo a descriverlo come un film di Scorsese, troppi amministratori che pensano a sistemare amici e clienti, a trafficare con le Asl, organizzare mostre e convegni e non si curano delle fogne, della rete idrica, della spazzatura.

Come ha scritto Aldo Grasso, "Un posto al sole", la soap italiana più nota, è il simbolo della Napoli bassoliniana, chiusa in un palazzo nobiliare dotato di tutti i comfort, col mare e il Vesuvio di fronte, dove non è mai esistito il problema della spazzatura, perché appunto non c’è mai stata Napoli, una città che avrebbe bisogno di opere concrete più che discorsi pomposi sul Risorgimento. Tra i tanti lamenti per la mancanza di fondi per celebrare l’unità, non c’è stato un intellettuale che abbia ricordato come il miglior modo per ricordare i 150 anni sarebbe la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, una grande opera che darebbe a tutti l’idea – anche a chi non conosce la storia e anche a chi non è italiano –  di cosa possa fare l’Italia quando si mette in cammino.