Non è in discussione la libertà di Santoro ma il suo privilegio in Rai
17 Aprile 2009
Con la puntata di ‘Anno zero’ dedicata al terremoto abruzzese e alla macchina dei soccorsi ,Michele Santoro ha attivato un dibattito non poco complesso che, al di là delle polemiche contingenti, ripropone vecchi vizi ed equivoci della cultura politica italiana.
< Dietro il paravento della libertà d’informazione, di cui è rappresentante unico per l’Italia, isole comprese>, ha scritto Aldo Grasso sul ‘Corriere della Sera’, Santoro < ha allestito una trasmissione all’insegna del più frusto slogan politico ‘piove, governo ladro’>. Condivido lo sdegno e il sarcasmo del critico ma quanto è accaduto, nello studio della TV di Stato, non può essere liquidato con poche battute.
La libertà di stampa, ammonivano i classici del pensiero liberale, è un bene talmente prezioso che bisogna sopportarne gli abusi .<In materia di stampa, rilevava Alexis de Tocqueville nella Democrazia in America (1835), non vi è un giusto mezzo tra la servitù e la licenza. Per raccogliere gli inestimabili beni, che la libertà di stampa assicura, bisogna sapersi sottomettere agli inevitabili mali ch’essa fa sorgere>. Quasi trent’anni prima, nei Principi di politica (1806), Benjamin Constant aveva scritto <’Lasciar fare è tutto quel che è necessario per portare il commercio al più alto grado di prosperità; ‘lasciar scrivere’ è tutto ciò di cui c’è bisogno perché lo spirito umano giunga al più alto grado di attività, profondità e giustizia>.
Nella trasmissione contestata si sono sentite, come hanno sostenuto gli autori, le due campane–da una parte, Luigi De Magistris e Claudio Fava, dall’altra, Guido Crosetto e Mario Giordano—ma esse restituivano il suono sordo delle ‘mere opinioni’: a restare impressi nella mente dei telespettatori facilmente suggestionabili e prevenuti, infatti, erano i duri ‘fatti’ registrati dal documentario degli inviati di ‘Anno zero’. Un documentario che dava la parola solo a quanti denunciavano colpevoli inadempienze da parte del governo in carica e della Protezione civile .
Intollerabile, d’accordo, e, nondimeno, ci si chiede : ma esistono poi parametri sicuri e incontrovertibili che indichino quando un servizio giornalistico o una ricostruzione storica sono oggettivi? <Il giornalismo di Santoro, ha sintetizzato assai bene Grasso, funziona così: con l’aiuto delle poderose inchieste di Sandro Ruotolo e Greta Mauro ha intervistato una signora che si lamentava di un ritardo di un paio d’ore dei soccorsi, un signore che diceva di aver freddo, di un altro ancora che cercava riparo in tende non ancora montate, una studentessa che preoccupata aveva lasciato l’Abruzzo per tempo, un medico che denunciava la mancanza di bottigliette d’acqua nel suo reparto. Ne è uscito così un quadro di devastazione organizzativa da aggiungersi alla devastazione reale>.La critica è ineccepibile ma se il quadro è menzognero non lo sono necessariamente i singoli elementi che lo compongono. Diceva Indro Montanelli che si può sostenere una tesi falsa mettendo insieme frammenti di verità e, al contrario, sostenere una tesi vera, mettendo insieme una serie di falsità. Il servizio giornalistico di Santoro rientra, indubbiamente, nel primo caso ma cosa obiettare a chi ci venisse a dire che gli intervistati mostravano un rovescio della medaglia che nessuno altro organo mediatico, in quei giorni, aveva avuto il coraggio civico di portare a conoscenza dell’opinione pubblica? La signora, penalizzata dal ritardo dei soccorsi, il signore che aveva freddo, il medico senza bottigliette d’acqua non erano forse testimoni di un dramma esistenziale che meritava tutto l’ascolto e la comprensione umana possibili? In realtà, sappiamo bene che si è trattato, da parte di Santoro, di un’operazione di sciacallaggio mediatico ma questo nostro intimo convincimento può aspirare allo stesso grado di obiettività dell’ affermazione: <Paganica è stata l’epicentro del terremoto in Abruzzo>? E’ una domanda che investe non solo i media ma un po’ tutte le cosiddette scienze umane, a cominciare dalle discipline coltivate dallo storico, che potrebbe considerarsi, sotto certi aspetti, il giornalista del passato così come, per converso, il giornalista potrebbe considerarsi lo storico del presente.
Un noto cattedratico dell’Università di Firenze ha sostenuto, in un pamphlet pubblicato da una delle più prestigiose case editrici italiane, che l’attentato alle Torri Gemelle non era opera di fondamentalisti islamici ma della Casa Bianca e dei servizi segreti israeliani. Nella stessa Università un filosofo insegna che la storia del cristianesimo è costellata dalla violenza, dall’intolleranza e dalla superstizione religiosa. Se a questi maîtres-à-penser non si possono comminare sanzioni e censure, perché ai giornalisti televisivi dovrebbe riservarsi un diverso trattamento? Forse per il fatto che i primi possono contare su una ‘audience’ infinitamente minore? E quando mai il numero dei destinatari dei messaggi è stato considerato un buon argomento per intervenire sulla cattiva informazione?
L’amico e collega Roberto Chiarini ha svolto un’eccellente analisi de ‘L’ultimo fascismo’ (Ed. Marsilio), uno studio documentato, intelligente, equilibrato come se ne leggono assai pochi sulla Repubblica Sociale Italiana. Sennonché il mio giudizio positivo, sul piano strettamente scientifico, che validità può avere? Non certo la validità della legge di gravitazione universale dal momento che nella comunità degli storici contemporaneisti sono parecchi quelli che non condividono il mio apprezzamento. Alla stessa maniera non tutta la stampa e non tutta la classe politica concordano con il severo e giusto giudizio che professionisti diversi come Aldo Grasso, Vittorio Feltri, Lucia Annunziata, Giancarlo Loquenzi hanno dato della maniera di far informazione tipica di Santoro. Con diverse sfumature lo hanno difeso l’Italia dei Valori (leggi una grande percentuale della magistratura), l’ultrasinistra, i radicali,e sul versante giornalistico, ‘Repubblica’, ‘Il Manifesto’, certe radio, certe redazioni televisive etc. Quanto per gli uni (e per me) è impresentabile, per gli altri è espressione di libertà e di non conformismo intellettuale. In situazioni come queste, non si vede via d’uscita e ogni richiesta di ‘sanzioni’, di ‘ammonizioni’, di ‘censure’ finirebbe per avere un sapore di parte, sia pure della ‘major pars’.
La cultura italiana condizionata da famiglie ideologiche che si ritengono in diretto contatto con Dio, con la Storia, con la Ragion Laica e progressista, è talmente abituata a ritenere che, in politica, la Verità coincidente con il Bene sia separata con un taglio netto dall’ errore coincidente con il male, da non riuscire neppure a sospettare l’esistenza di ampie regioni grigie dell’esistenza che costituiscono, da sempre, la manna di giornalisti e di politici a dir poco spregiudicati. Una manna inesauribile giacché, in conseguenza di quello che i credenti chiamano il ‘peccato originale’ e i laici, con Kant, il <legno storto dell’umanità> non c’è realizzazione umana che non abbia le sue ombre, non ci sono eroi ‘senza macchia e senza paura’: anche nell’agire più competente e disinteressato c’è sempre qualcosa <che va storto>–forse anche per dar lavoro ai ‘muckraker’ della stampa e della storiografia alla ricerca di cadaveri negli armadi dei Padri della Patria. Solo nei regimi totalitari è interdetto ai dissenzienti di farne parola.
In una matura democrazia liberale, però, gli eccessi della libertà di stampa trovano la loro sanzione nell’opinione pubblica non nelle sanzioni amministrative e tanto meno nelle sentenze della magistratura (come forse vorrebbe Di Pietro se degli abusi denunciati si rendessero colpevoli ‘Libero’ o ‘Il Giornale’). Ne era ben consapevole Constant quando ricordava che nella storia francese c’è stato un periodo del quale si è potuto dire che <mai la libertà o piuttosto la licenza della stampa fu più illimitata: mai libelli furono più diffusi in tutte le forme e messi con maggior impegno alla portata di tutti i curiosi. Ma al tempo stesso mai si è accordata minore attenzione a questi spregevoli prodotti>. Nei casi più gravi, il teorico della ‘libertà dei moderni’ riteneva che <il solo modo efficace per reprimere i delitti di stampa lasciando a questa la sua indipendenza> fosse <il giudizio mediante giurati. I delitti della stampa sono differenti dagli altri delitti in quanto si compongono assai meno di fatti positivi che di intenzione e risultato. Ora non v’è che un giurì che possa pronunciare sull’una in base alla propria convinzione morale e determinare l’altro mediante l’esame e il confronto di tutte le circostanze. Ogni tribunale, in quanto pronuncia in base a leggi precise, si trova necessariamente nell’alternativa di permettersi l’arbitrio o di sanzionare l’impunità>. Oggi dell’imparzialità delle ‘giurie’ e degli ordini professionali ci fidiamo assai poco e, pertanto, gli unici rimedi possibili stanno nei criteri di reclutamento di giornalisti e di docenti, criteri non infallibili giacché dipendono, in ultima analisi, dai rapporti di potere e dal senso di responsabilità di quanti rivestono ruoli di autorità.
Se fossi ai vertici della RAI non rinnoverei il contratto a Michele Santoro, avendo un’idea ben diversa su come dovrebbe essere un servizio giornalistico imparziale anche se, per tutta la durata del contratto ,mi rassegnerei al fatto di aver le mani legate.
E’ scontato che in democrazia, si ha il diritto ad essere faziosi, parziali e unilaterali–un diritto, peraltro, rafforzato dal dubbio salutare che potremmo aver torto noi e che un domani quanti ci appaiono oggi faziosi potrebbero venire assolti con formula piena. Ma i diritti di libertà non concedono a chicchessia un lasciapassare in tutti i luoghi pubblici e privati in cui si trasmettono conoscenze e informazioni. La libertà di espressione di Michele Santoro e di Marco Travaglio non si converte nel privilegio (solo) ad essi conferito di imporre le loro denunce e prediche sempre e dovunque, anche in sedi radiotelevisive che non dipendono dal mercato, ovvero dalla libera scelta del cittadino-consumatore, ma dal sostegno dello Stato. Soprattutto quando si sfodera uno ‘stile giornalistico’ espresso da una <political culture> che, col suo voto, la maggioranza degli elettori italiani si è lasciata alle spalle insieme agli ‘anni formidabili’. Il <pluralismo dell’informazione> al quale si è richiamato Sergio Zavoli, gettando acqua sul fuoco delle polemiche su ‘Anno zero’, è fuori luogo. Il diritto di dire ciò che si pensa va garantito a tutti così come tutti debbono essere liberi, in una scuola o su un giornale, di tessere l’apologia, che so io?, di Mao Tse Tung o di Pol Pot o di Adolf Hitler o di Torquemada: se, però, lo fanno coi soldi dei contribuenti, questi non possono rinunciare a far valere, attraverso i partiti ai quali danno il loro appoggio, una diversa filosofia dell’insegnamento e dei criteri di assunzione del corpo docente.
Se la storia e il giornalismo fossero attività intellettuali garantite da rigorosi standard scientifici, il ‘pluralismo liberaldemocratico’ sarebbe, come pensava coerentemente il positivista Auguste Comte, un inutile intralcio al progresso dell’informazione e del sapere. I codici,elaborati dai competenti, deciderebbero, in maniera infallibile, chi può scrivere e chi no, chi può insegnare e chi no. Sfortunatamente, possiamo solo accordarci su ‘metodi della scienze storico-sociali’—quello proposto da Max Weber continua a sembrarmi insuperabile—che definiscano a)l’avalutatività ovvero come farsi condizionare il meno possibile dai propri valori;b) la significatività ovvero la ragione per cui certi eventi storici vanno giudicati più importanti di altri;c) i modi di attribuzione dei nessi causali tra i fatti rilevanti. Si tratta, però, di un accordo intersoggettivo che lascerà fuori quanti, avendo valori del tutto inconciliabili con i nostri, potrebbero ritenere, ad esempio, che l’importanza da noi data alle Termopili, dove morirono poche centinaia di greci, rispetto ad altre battaglie mediorientali, che videro il massacro di migliaia di combattenti, è segno del nostro inguaribile etnocentrismo. Alla fine, se riusciremo a far valere la nostra visione del sapere e, quindi, a tradurla in programmi e in lezioni, lo dovremo solo al nostro ‘peso sociale’—ovvero, in democrazia, al fatto che quanti hanno i nostri valori etico-politici—indipendentemente da come poi li declinano politicamente– e la nostra stessa ‘filosofia della scienza’, a destra e a sinistra, siano riusciti a prevalere sugli altri.
Per Zavoli, rispettabile esponente dalla sinistra cattolica, alla libertà ‘negativa’, riconosciuta a tutti, di dire quel che pensano deve seguire la libertà ‘positiva’ di assegnare a tutti una tribuna pubblica. Ma se così fosse, perché non garantire alle ultime raffiche di Salò, o ai nostalgici del Papa-Re o di Re Lazzarone una fascia oraria, sia pure in tarda serata, in cui far conoscere <tutte le ‘verità’ che la scuola e i giornali non ci dicono?>. Ancora una volta, in Italia si vuol fare la rivoluzione con l’aiuto dei carabinieri e la controinformazione col denaro dei lettori del ‘Giornale’o di ‘Libero’.