Non è precario chi non ha un lavoro, ma chi non ha tutele

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Non è precario chi non ha un lavoro, ma chi non ha tutele

Non è precario chi non ha un lavoro, ma chi non ha tutele

04 Ottobre 2012

Da gennaio 2018 l’aliquota contributiva dovuta alla Gestione Separata Inps salirà al 33,72% per i collaboratori “esclusivi” (coloro che dalla collaborazione o dall’attività con partita Iva senza cassa ricavano il principale sostentamento); al 24% quella dei collaboratori “non esclusivi”, dei collaboratori cioè in pensione o in possesso di un’altra previdenza obbligatoria (coloro i quali, occupati o pensionati, con la collaborazione raddrizzano il bilancio familiare).

Il traguardo verrà raggiunto seguendo una tabella di marcia che parte il 1° gennaio 2014. La novità – prevista dalla riforma Fornero che ha voluto equiparare la previdenza dei parasubordinati a quella dei subordinati (per i quali, ai fini pensionistici, si versa il 33% all’Inps) – produce un pesante aumento dei contributi, ma lascia irrisolta la vera questione per i parasubordinati: l’accredito contributivo. Che è poi la vera “precarietà” che li continuerà a distinguere dai dipendenti. L’intenzione era quella di ravvicinare le due categorie? Succederà l’esatto contrario, peraltro con qualche danno in più a carico dei lavoratori parasubordinati. Proviamo a verificarne il perché.

Nel linguaggio comune, dire che per andare in pensione servono “66 anni d’età e 20 anni di contributi” è lo stesso di dire che servono “66 anni d’età e 20 anni di lavoro”. In altre parole, si usano come sinonimi “contributi” e “lavoro”, cosicché a “un anno di lavoro” si fa corrispondere “un anno di contributi” e viceversa. La corrispondenza è vera e reale solo con riferimento ai lavoratori “dipendenti” e “autonomi”, in quanto, per ogni anno di lavoro, viene pagato un certo ammontare di contributi tale da garantire un intero anno di “accredito contributivo” utile ai fini della pensione. La corrispondenza non è esatta, invece, per i parasubordinati, cioè per i lavoratori iscritti alla Gestione Separata Inps.

Ciò che contraddistingue le tre categorie di lavoratori – dipendenti, autonomi e parasubordinati – sono proprio le regole per l’accredito contributivo, poiché mentre per dipendenti e autonomi esiste un meccanismo che garantisce che a ogni giorno, settimana, mese o anno “di lavoro” corrisponda esattamente un giorno, settimana, mese o anno “di contributi”, lo stesso meccanismo non opera nel caso dei contributi dovuti alla Gestione Separata. Questo meccanismo si chiama “minimale contributivo”: è l’importo minimo, al di sotto del quale non si possono calcolare i contributi da pagare (è vietato dalla legge). Quindi, quand’anche la retribuzione pagata al dipendente risultasse inferiore a tale minimo, l’impresa sarebbe (è) comunque tenuta a versare un contributo calcolato sul minimale così da garantire al lavoratore un effettivo “accredito contributivo”: ha lavorato un giorno avrà un giorno di accredito contributivo; ha lavoratore un mese o un anno avrà un mese o un anno di accredito contributivo.

Così avviene anche per i lavoratori autonomi (artigiani e commercianti iscritti all’Inps) e per tutti i professionisti iscritti alle casse professionali (avvocati, medici, ecc.); unica eccezione è la Gestione Separata Inps. In tal caso, infatti, i contributi sono calcolati e pagati sugli effettivi compensi dei lavoratori, senza alcun vincolo di importo minimo: non c’è, insomma, un minimale di riferimento. Però – e qui sta un urticante trucchetto – un “minimale” opera ai fini dell’accredito contributivo, nel senso che per avere l’accredito di un giorno, di un mese o di un anno di contributi utili ai fini della pensione è necessario che risulti pagato un tot preciso di contributi predeterminato per legge, guarda caso, proprio sul “minimale” (che è preso a prestito dalla categoria degli artigiani e commercianti).

Per l’anno 2012 l’importo minimo di contributi che deve pagare il lavoratore iscritto alla Gestione Separata per avere un anno o un mese di “accredito contributivo” è, rispettivamente, pari a euro 4.138,60 (4.031,10 ai fini pensionistici) e 344,88 (335,93 ai fini pensionistici) per chi paga l’aliquota del 27,72%. Ciò significa che l’Inps, in presenza di versamenti contributivi per 4.140 euro, accredita un anno intero di contributi; mentre in presenza di versamenti inferiori a 4.139 euro, accredita tanti mesi quante volte l’importo di 344,88 euro entra nell’importo di contributi versati. In quest’ultimo caso, allora, diventa possibile che l’Inps, per un lavoratore che abbia lavorato un intero anno, accrediti meno di un anno di contributi ai fini della pensione. Che cosa significa questo? Significa che il collaboratore, pur avendo lavorato per un anno pieno, non ha la garanzia di avere accumulato un anno di “anzianità contributiva” che gli servirà per maturare i requisiti per andare in pensione: tutto dipende dal fatto di aver guadagnato in misura tale da avergli permesso, indirettamente, di rispettare il versamento minimo di contributi. Tradotto in termini di compensi, per raggiungere il versamento minimo che permette di ottenere un anno di accredito di contributi, il lavoratore deve guadagnare almeno 14.930 euro (dati riferiti al 2012), ossia 1.245 euro mensili. In base a questo meccanismo, il collaboratore che guadagna la metà, ossia 622 euro al mese (7.465 euro l’anno), deve lavorare due anni per avere dall’Inps il riconoscimento di un anno di contributi utili ai fini dei requisiti per la pensione.

Che effetti produrrà, dunque, l’aumento dell’aliquota contributiva della Gestione Separata voluta dalla riforma Fornero? Davvero migliorerà le condizioni dei lavoratori parasubordinati in modo tale da avvicinarli – come pure è stato sostenuto – alle tutele godute dai lavoratori dipendenti ? Viene più di un dubbio, considerando che non è stata corretta l’anomalia sull’accredito contributivo. La cosa certa è un’altra: il collaboratore costerà di più, cioè ci sarà un aumento del costo del lavoro parasubordinato, aumento tutto sommato inseguito dalla riforma. Il ministro Fornero, infatti, ha ripetutamente affermato che “la flessibilità va pagata dalle imprese”; come se le imprese ricevessero qualche servizio in più dall’assumere con contratto a termine o lavoro a progetto invece che con il contratto a tempo indeterminato. E poi: che cosa c’entrano, in questo discorso, i professionisti senza cassa che dovranno sobbarcarsi per interno l’aumento contributivo? La verità, allora, è che in questo discorso soverchia su tutto una (involontaria?) posizione ideologica figlia dell’art. 18: si difende più il “posto” di lavoro che la “persona” del lavoratore. La riforma, infatti, ha pensato a far pagare di più all’impresa che non garantisce il “posto” di lavoro, ma si è dimenticata al contempo di verificare che, quel prezzo fatto pagare in più, finisse davvero a innalzare il livello di tutele dei lavoratori.

La cosa certa, dicevamo, è che il lavoro parasubordinato costerà di più. E non solo alle imprese ma agli stessi lavoratori. Quando (dal 2018) verrà raggiunta l’aliquota del 33,72%, le imprese avranno subìto un incremento del 4% e i collaboratori del 2%, con le prime che devono sopportare il 22,48% dell’onere contributivo (cioè i due terzi di 33,72%) e i secondi l’11,24% (cioè un terzo di 33,72%). Un esempio. Per il collaboratore che oggi guadagna 14.930 euro lordi l’anno l’impresa sostiene un costo annuo complessivo, tra compensi e contributi Inps, pari a 17.689 euro (14.930 per compensi più 2.759 per contributi corrispondenti al 18,48% di 14.930, cioè i due terzi dell’aliquota piena del 27,72%). Il lavoratore, dal canto suo, dei 14.930 euro lordi di compenso ne incassa 13.550 (14.930 meno 1.380 per contributi Inps pari al 9,24% di 14.930, cioè un terzo dell’aliquota piena del 27,72%). Quando l’aliquota avrà raggiunto il traguardo del 33,72% la situazione sarà questa: l’impresa sosterrà un costo annuo complessivo, tra compensi e Inps, di 18.286 euro (14.930 per compensi più 3.356 per contributi pari al 22,48% di 14.930, cioè i due terzi del 33,72%); il lavoratore dei 14.930 euro lordi ne incasserà 13.252 (14.930 meno 1.678 per contributi pari all’11,24% di 14.930, cioè un terzo del 33,72%). Insomma, l’impresa subirà un aumento del costo del lavoro di 597 euro annui e il lavoratore una riduzione del netto incassato di 298 euro.

Fin qui la “normale” prospettiva futura; ma si può prevedere anche di peggio senza sacrificare tanto la realtà: il rischio è che l’aumento si traduca in ‘tassa’ per, e solo per, i lavoratori. L’esempio precedente, infatti, vale fintantoché ci si trova a collaborare con un’impresa propensa (e avente le possibilità) di accollarsi il maggiore onere contributivo. Non vale e produce conseguenze negative per il collaboratore laddove ci si trova a collaborare con un’azienda che, invece, per una data collaborazione, è disposta (ha possibilità) a pagare un tot predeterminato di costo complessivo (omnicomprensivo, cioè, che includa compensi più contributi). In tal caso, infatti l’aumento di aliquota contributiva potrebbe ritorcersi esclusivamente sui collaboratori come si trattasse di una “tassa” con il doppio svantaggio di ridurre (1) il compenso netto incassato e (2) il periodo di accredito contributivo utile per la pensione. L’ipotesi potrebbe sembrare un caso scolastico; invece non è lontana dalla realtà. Per esempio è ciò che potrebbe verificarsi nelle Università dove per le collaborazioni c’è consuetudine di fissare un badget di spesa omnicomprensivo che cioè include tutto: compenso e contributi Inps. Vediamo.

Consideriamo l’esempio precedente del collaboratore con diritto a 14.930 euro di compenso lordo annuo. Oggi, come detto, l’impresa sostiene un costo di 17.689 euro (14.930 più 2.759 per contributi). Poniamo che questo importo (17.689 euro) sia il costo massimo che l’impresa è disposta a sopportare: che cosa succede con i futuri aumenti annui dell’aliquota contributiva? Succede che, anno dopo anno, aumento dopo aumento, verranno ricalcolati “compenso” e “contributo”, con il primo che si riduce di una quota esattamente pari all’incremento del secondo. Prendiamo l’anno in cui l’aliquota avrà raggiunto il traguardo del 33,72%. Dovendo l’impresa sostenere ‘comunque’ (perché così prestabilito) il costo annuo complessivo di 17.689 euro tra compensi ed Inps, succederà che il compenso annuo verrà ricalcolato in euro 14.442 per far sì che, una volta sommata anche la quota contributiva a carico dell’impresa, si ottenga 17.689 euro. La situazione finale allora sarà questa: l’impresa sosterrà un costo annuo complessivo, tra compensi e Inps, di 17.689 euro: 14.442 per compensi più 3.247 per contributi (pari al 22,48% di 14.442); il lavoratore dei 14.442 euro lordi ne incasserà 12.819, ossia 14.930 meno 1.623 per contributi (pari all’11,24% di 14.442).

In conclusione, dunque, l’impresa non avrà subito alcun aumento del costo del lavoro (era ed è restato 17.689 euro), mentre il collaboratore si ritrova con una riduzione di incasso netto di 433 euro annui (primo svantaggio dell’effetto tassa). “E’ vero”, si potrà considerare, che il lavoratore ha guadagnato di meno, ma quel meno è comunque finito a suo favore in pensione”. Dipende. Nel caso considerato, per esempio, non è assolutamente vero (o lo è solo in parte, cioè per l’importo della pensione ma non per i requisiti di pensionamento). Infatti – questo è il secondo svantaggio dell’effetto tassa – con il calo del compenso da 14.930 (che è il minimale che consente un anno di accredito contributivo) a 14.442 euro, il collaboratore perde il diritto a un anno pieno di accredito contributivo utile ai fini pensionistici. Alla fine, quindi, il lavoratore avrà lavorato un anno ma, ai fini dei requisiti per la pensione, avrà accantonato meno di un anno di contributi, con la conseguenza di vedere allontanare l’epoca di pensionamento.

Insomma, oltre al danno (minore stipendio) anche la beffa (ridotto diritto alla pensione), ovvero più precari di prima. Perché non è precario chi non ha un posto di lavoro, ma chi è destinato a soffrire per la scarsità di tutele sul lavoro.