Non è vero che l’America di oggi è come la Gran Bretagna di Chamberlain

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Non è vero che l’America di oggi è come la Gran Bretagna di Chamberlain

20 Ottobre 2009

A fine settembre, sulle colonne del Wall Street Journal, Mark Helprin ha paragonato Barack Obama a Neville Chamberlain, lo sciagurato premier inglese che contrattò con Hitler alla conferenza di Monaco del 1938 e in una smania di “appeasement” finì per lasciargli via libera in Europa. Per tutta risposta, non più tardi di una settimana fa, l’Accademia Reale di Svezia ha annunciato di aver assegnato al presidente americano il premio Nobel per la pace: semplicemente il più prestigioso riconoscimento al valore di chi si spende al servizio della “cosa pubblica” e del “bene comune”. Un duro colpo per gli oppositori di Obama, che gli contestano una politica estera poco incisiva, e insieme una decisione controversa, accolta con sorpresa anche in America.

Il Nobel è l’ennesimo riconoscimento – oltre che alla storia eccezionale, alla “fiaba” del neopresidente – al suo carisma, che è dono di personalità ma anche capacità di leggere i tempi. Evidentemente la società occidentale corrisponde molto più al messianismo e all’approccio soft di Obama che allo spirito battagliero di Bush. Il fatto è che, nell’indole e nei gesti, Obama non dà mai l’impressione di essere arrendevole: è malleabile senza essere accomodante, aperto ma deciso. Lontano anni luce dall’immagine in bianco e nero di Chamberlain, emaciato e occhialuto signor Tentenna, improvvido messaggero di pace universale sbeffeggiato dai fatti.

Confondere Obama con quel giurassico primo ministro inglese è, in tutta onestà, una forzatura “politica” di chi vuole anticipare il giudizio della storia. All’epoca della conferenza di Monaco Hitler s’era già succhiati come un uovo l’Austria e i Sudeti, in spregio ad accordi e rassicurazioni, e supporne ad oltranza la buona fede fu, da parte di Chamberlain, un errore imperdonabile. Obama tende la mano a una Russia che rivendica il suo peso geopolitico ma non è né potrà più essere l’impero del male e a un Iran che ringhia ma sa bene quali rischi correrebbe a mordere. Gli appelli di Ahmadinejad suonano ogni giorno più retorici e le immagini della protesta “verde” mostrano un paese assai meno monolitico della Germania nazista.

La politica estera di Obama è all’attacco, ma in contropiede, sorprendente come il Nobel che gli è stato assegnato. Punta ad accrescere la credibilità e il peso negoziale degli Stati Uniti, eliminando contraddizioni fin troppo evidenti nella loro politica recente, e insieme a disorientare e “smascherare” i loro interlocutori, prospettando soluzioni coraggiose e in un certo senso provocatorie. Ha due parole d’ordine: multilateralismo e “nuovo inizio”. Nuovo inizio come “nuovo patto” o “nuova alleanza”. Nuovo inizio con l’America Latina e Cuba (come annunciato in aprile al Vertice delle Americhe di Trinidad e Tobago), nuovo inizio con la Russia, con i Paesi Arabi, con gli Israeliani e con i Palestinesi.

Si tratta, a pochi mesi dal suo avvio, di una politica estera già ben strutturata, che esalta le virtù del dialogo e concepisce le relazioni internazionali come rapporti tra soggetti di pari dignità, ma che, per l’esiguità del tempo e la scarsa probabilità dei miracoli, non ha ancora prodotto risultati concreti. Come sempre accade, le circostanze ne segneranno il successo o il fallimento e il tempo giudicherà. Intanto il premio Nobel al suo autore è un incoraggiamento e un vincolo. Come Berlusconi ha prontamente notato, ora Obama dovrà essere ancora più “ecumenico”.

Obama non sarà mai il Chamberlain di Monaco ma può essere il McDonald che qualche anno prima riconobbe di fatto ai nazisti la “parità di diritti” in materia di armamenti o il Baldwin che stipulò il trattato navale del 1935 con la Germania: gli uomini, cioè, che rincorrendo il disarmo favorirono in pratica il riarmo tedesco. Anche quello doveva essere un nuovo inizio.