Non facciamo del voto europeo  un test nazionale

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Non facciamo del voto europeo un test nazionale

27 Maggio 2008

 Ha fatto bene Quagliariello (per salvare il bipartitismo va cambiata la legge elettorale per le Europee) ad illustrare le non trascurabili conseguenze politiche delle elezioni europee dell’anno prossimo. Cambiare la legge elettorale per quelle consultazioni non è solo un adempimento imposto dalla nuova composizione dell’unione europea, ma può risultare una tappa importante per consolidare il tendenziale bipartitismo che è il risultato più importante, da un punto di vista sistemico, del voto politico dello scorso aprile.

Giusto anche sottolineare che la discussione sulla modifica della normativa elettorale non può limitarsi  ad un discorso sulla clausola di sbarramento (al 7, al 5 o al 3%).

Discorso che risulta punitivo verso i cosiddetti partiti minori e inutilmente machiavellico. Invece, è opportuno discutere di un diverso sistema elettorale (voto trasferibile, voto alternativo, ad esempio) in modo da salvaguardare maggiormente la libertà di scelta dei cittadini. Da un lato riducendo l’estensione delle circoscrizioni, avvicinando perciò gli eletti alla costituency, dall’altro consentendo all’elettore di esprimere una prima e una seconda scelta (è questa la sostanza di sistemi elettorali come il voto trasferibile e quello alternativo), evitando però il cannibalismo di lista legato al voto preferenziale.

Tuttavia, per inquadrare meglio il problema è forse opportuno fare dei riferimenti alla vicenda politica degli anni scorsi. La crisi apertasi nel 1992 è stata anzitutto crisi dell’ordine doroteo. Nella prima repubblica, data la presenza di un forte partito comunista, il ricambio di governo era impossibile. Ne risultava non solo l’inamovibilità al potere del partito dominante (la Democrazia cristiana), ma anche una tendenziale equiparazione tra le elezioni politiche e le altre votazioni (amministrative, regionali, europee). Ogni votazione, fosse essa politica o amministrativa, era considerata un test per saggiare lo stato dell’opinione e, soprattutto, per rinegoziare gli equilibri di governo. Questo sistema, che favoriva in modo disastroso l’instabilità (la durata media dei governi dal 1947 al 1992 è stata di 10 mesi circa), poteva avere una qualche giustificazione in una democrazia bloccata, ma conteneva una controindicazione assai grave. Non consentiva l’individuazione della responsabilità politica.

La svolta del 1994 è stata, appunto, questa. Fare delle elezioni politiche il cardine della vita pubblica e collegare il governo al voto popolare. In termini tecnici si chiama democrazia di mandato o democrazia immediata. Alle elezioni politiche non si vota solo un partito, ma un potenziale governo che ha preso alcuni impegni. Al termine della legislatura si tirano le somme. Il popolo è quindi sovrano non in termini metafisici ma perché in possesso di un effettivo potere di indirizzo politico. I governi che hanno operato bene possono essere premiati, quelli che hanno operato male possono essere puniti. La stabilizzazione del nuovo ordine uscito dalla rivoluzione democratica del 1994 è stata ostacolata fortemente dall’abitudine di dare valenza politica ad altri tipi di consultazioni. Senza andare troppo indietro nel tempo basterà ricordare che dopo le europee del 2004 Berlusconi fu costretto a una lunga trattativa per tenere insieme il governo. Dopo le regionali del 2005 dovette subire un rimpasto del tutto inopportuno. In definitiva, durante la quattordicesima legislatura l’efficacia dell’azione di governo è stata condizionata in modo negativo dalla pessima abitudine di considerare in un’ottica politica nazionale votazioni di tutt’altro genere.

Bisogna fare tesoro dell’esperienza e non ripetere gli errori del passato. Occorre perciò cambiare la legge per le europee aumentando il potere degli  elettori, certo. Ma non sarebbe male proclamare da subito che le elezioni del 2009 per il parlamento europeo non avranno effetti politici. Inoltre, si potrebbe arrivare a una sorta di gentlemen’s agreement fra le principali forze politiche, per cui la campagna per le europee dovrà riguardare esclusivamente temi europei: funzionamento delle istituzioni comunitarie, scelte legate alla politica europea nei diversi settori (economia, agricoltura, politica estera).

Non si dovrà parlare di vicende nostrane. Soprattutto, nel dopo il voto non ci dovranno essere commenti tesi a leggere i risultati in chiave di politica italiana. In questo modo si otterrebbe un duplice risultato. In primo luogo, l’opinione pubblica potrebbe finalmente farsi un’idea più precisa del senso e del significato delle posizioni dei partiti rispetto all’Unione europea. In secondo luogo il sistema politico darebbe un’ulteriore prova di maturità, evitando di mescolare i piani del confronto politico. A quel punto il traguardo di una democrazia normale, pienamente legittimata e funzionante, sarebbe molto più vicino.