Non fidatevi di WikiLeaks se volete capire la guerra in Iraq
09 Settembre 2011
Uno degli ultimi cable sulla Guerra in Iraq diffuso da WikiLeaks ha già ottenuto il suo effetto: riaprire una vecchia ferita del conflitto tra il governo Maliki e le autorità americane, quella sul cosidetto “incidente di Inshasa”. Il dispaccio, “unclassified”, secondario dal punto di vista della segretezza e quindi potenzialmente divulgabile (sono questi il genere di scoop di Assange), fa riferimento a un rapporto inviato alla sede diplomatica Usa di Ginevra da Phil Alston, Relatore Speciale per le escuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie all’Onu, che a sua volta l’ambasciata americana gira al Dipartimento di Stato.
Nel documento, Alston riporta le informazioni raccolte da una serie di fonti irachene a proposito di un raid condotto dai Marines il 15 marzo del 2006 contro la casa di un contadino nella zona di Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Almeno 10 civili iracheni sarebbero morti a causa dell’operazione, compresi una anziana ultrasettantenne e cinque bambini di età compresa fra i tre e i cinque anni, oltre agli adulti residenti (altri due uomini e una donna, tutti under 30). Alston racconta che all’arrivo delle truppe americane sull’obiettivo, dalla casa sarebbero stati sparati dei colpi contro i militari, che a loro volta avrebbero risposto al fuoco ingaggiando una sparatoria durata circa mezz’ora. Alla fine, “Le truppe delle forze multinazionali sono entrate nell’edificio, ammanettando tutti gli abitanti della casa e uccidendoli (executed all of them, ndr.). Dopo l’intervento, un raid aereo ha distrutto la casa”.
Si fa anche riferimento alle immagini mandate in onda dalla tv irachena che mostrano i cadaveri dei bambini e degli altri residenti della casa nella morgue dell’ospedale di Tikrit, “tutti i corpi evidenziano un colpo alla testa e i segni delle manette ai polsi”. A questo punto il rapporto si concentra sulle motivazioni dell’attacco, spiegando che si è trattato di una ritorsione delle truppe Usa dopo che nei giorni precedenti due soldati americani erano stati uccisi dall’insorgenza nella zona. In un brevissimo passaggio, si aggiunge che la missione mirava a catturare un “esponente del network di Al Qaeda in Iraq”. Alston chiude il documento chiedendo spiegazioni alle autorità americane sulla base dell’incarico che ricopre come investigatore all’ONU, soffermandosi sul rispetto dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra in tempo di guerra.
La diffusione del cablo su Internet, grazie a WikiLeaks, nei giorni scorsi ha riaperto le polemiche sugli abusi delle truppe Usa in Iraq e sulle morti dei civili, rievocando lo spettro di My Lai. Il governo Maliki si dice pronto a riaprire l’inchiesta per far luce sui fatti, in un momento delicato in cui Stati Uniti e Iraq stanno negoziando i tempi del rientro delle truppe Usa dall’antica Mesopotamia. Non sarebbe eticamente accettabile archiviare le morti dei civili iracheni come “il prezzo della guerra”, soprattutto se fosse vero, come sostiene Alston, che i Marines hanno compiuto un omicidio premeditato sparando in testa a gente innocente, poveri bambini compresi. Sicuramente anche negli eserciti, come in qualsiasi altra organizzazione che detiene il monopolio della forza, possono nascondersi individui brutali e senza scrupoli, ma c’è anche un codice d’onore del soldato che impedisce di oltrepassare certi limiti di disonorevole spietatezza. Per cui è fondamentale capire quale sia la veridicità delle fonti di Alston e se WikiLeaks ci offra opinioni oppure evidenze.
Non c’è dubbio, come ammettono le autorità militari americane, che quel giorno, durante l’operazione, ci siano state delle “vittime collaterali”, un brutto eufemismo per dire che nella casa trovarono la morte dei civili. Ma proviamo a ricostruire il contesto dell’evento, un aspetto che Alston tende a minimizzare. Siamo nel 2006, nel Triangolo della morte dov’è più forte l’insorgenza sunnita e la penetrazione della internazionale jihadista. Le immagini di quei giorni dipingono scene da guerra vera, con i carri armati che sfrecciano nelle città occupate e i caccia americani che sganciano missili sugli obiettivi nei centri abitati. Il momento più buio, la storia ci dirà se necessario, del conflitto iracheno. I Marines sono sulle tracce di un leader kuwaitiano di Al Qaeda e sospettano che nella casa del contadino ci sia anche un reclutatore degli insorgenti. In effetti, dopo l’operazione, il kuwaitiano verrà fatto prigioniero dai soldati Usa e il reclutatore ucciso sul posto.
Quando i Marines raggiungono la casa e vengono accolti dai colpi dei fucili mitragliatori. Rispettando le regole d’ingaggio sparano, colpendo l’abitazione, appoggiati dagli Apache e dall’aviazione. Alla scena assistono alcuni testimoni, tra cui il fratello del proprietario della casa, che vive a cento metri di distanza. Finita la battaglia, si scopre che nella casa c’erano anche dei civili. Le autorità militari Usa offrono in breve tempo due versioni dell’accaduto, con un numero diverso di morti, una contraddizione che spinge il Pentagono ad aprire una indagine interna che però scagiona gli uomini impegnati nella operazione. Un maggiore dell’esercito Usa, in conferenza stampa, dice che la scena descritta dai testimoni iracheni (quella su cui si basa il rapporto Alston), con i bambini e la nonna messi nel centro della stanza e finiti a colpi di pistola alla testa, è una “falsità”. A confermare questa versione però ci sono gli ufficiali della neonata “polizia” irachena, che denunciano l’aggressività delle truppe di occupazione. Come abbiamo detto, sul web circola anche una foto drammatica in cui si vedono i corpi dei bambini nella morgue dell’ospedale. Scena desolante, anche se non è chiaro se sui loro polsi ci siano effettivamente i segni delle manette, o sulle loro piccole teste i fori dei proiettili.
A molti potrà sembrare capzioso farsi domande del genere e invece è importante per capire se i Marines abbiano commesso un crimine ai sensi del diritto internazionale (un’esecuzione in piena regola), oppure un terribile e grossolano errore di cui, comunque, dovranno rendere conto alla loro coscienza, avendo il Pentagono chiuso la vicenda e non accettando gli Usa di far giudicare i propri soldati da tribunali stranieri. Insomma, fu una carneficina premeditata? E aggiungiamo anche questa domanda: se un manipolo di guerrieri senza pietà avesse fatto piazza pulita degli abitanti della casa, chiamando l’aviazione a cancellare l’impronta del reato, perché i soldati avrebbero lasciato le loro vittime alla mercé dei fotografi presenti sul posto? Anche durante il Raid di Abbottabad, fatte le debite proporzioni, in giro c’erano donne e bambini, ci sono state delle vittime tra i familiari di Osama, il capo di Al Qaeda è stato ammazzato a sangue freddo, ma la dinamica dell’operazione, rispetto a Isqasa, ha i crismi della “ragionevolezza”, per quanto possa essere ragionevole la guerra al terrorismo, con i suoi scarti rispetto al diritto internazionale.
Nella versione offerta dai testimoni iracheni, ripresa da Alston e diffusa da WikiLeaks, la stessa che fa gridare allo scandalo il Guardian o Reporter senza frontiere, i Marines sembrano diavoli scatenati che distruggono tutto quello che incontrano sul loro cammino, come e forse peggio di Saddam Hussein. Nella versione del Pentagono, tutto viene ridimensionato con un lessico che genera comunque delle inquietudini in chi non porta una divisa. Sembra quindi difficile trovare il giusto punto di osservazione per interpretare i fatti. La soluzione di WikiLeaks, che funziona come tutti gli altri strumenti “neutrali” della Rete, è semplice: offrire una storia unidimensionale. Dove i “buoni” in realtà sono i cattivi. Resta la foto dei bambini uccisi dai Marines, lo sdegno per delle morti innocenti, ma anche l’incertezza su come andarono davvero i fatti nella fattoria del contadino iracheno. Ogni dubbio, una versione. Non può essere solo quella di WikiLeaks quella giusta. La “verità” non sta solo nelle tasche di Assange.