Non metto in discussione il diritto di manifestare, ma quello di intimidire

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Non metto in discussione il diritto di manifestare, ma quello di intimidire

17 Dicembre 2010

In democrazia la libertà di manifestare non dovrebbe essere concepita solamente come un diritto, ma anche e soprattutto come un dovere in grado di alimentare il dialogo e il pluralismo. Un genuino confronto democratico necessita della presenza di tutti quei ragazzi che il 14 dicembre hanno legittimamente deciso di scendere in piazza per esprimere dissenso nei confronti di una riforma – e di una fiducia al governo in carica – ingiusti ai loro occhi. La "res pubblica" cesserebbe di esser tale nel momento in cui ai propri membri fosse negato il diritto di discutere sull’amministrazione dei beni comuni.

Tuttavia la protesta democratica non può tollerare il ricorso alla violenza e agli atti di vandalismo, poiché tutelare l’incolumità e la sicurezza di ogni individuo è il primo e irrevocabile compito assegnato a uno stato di diritto. Quando la contestazione si trasforma in guerriglia per mano di sparuti gruppi di facinorosi, a perdere non sono soltanto la democrazia e la libertà, bensì chi manifesta armato solo di buoni propositi piuttosto che di bombe carta.

A seguito di determinati episodi di inciviltà l’opinione pubblica tende a dare maggior rilevanza alle barbarie, in quanto di più elevato interesse mediatico. Le opinioni di quanti hanno deciso di protestare civilmente vengono irrimediabilmente offuscate dalla deriva violenta e anarcoide.

Come studente universitario impegnato in attività politiche mi sento in dovere di invitare i miei coetanei a partecipare alla vita pubblica del paese e a coltivare interesse per la politica. Soltanto una cultura pluralista e rispettosa del sentire altrui può divenire proficua, per cui mi appello ai movimenti studenteschi di qualsiasi colore ed estrazione per richiamare alla moderazione non negli ideali ma nei comportamenti. Il Corpo della Polizia di Stato non è nostro nemico, è anzi pronto a tutelare in ogni momento quanti desiderano manifestare nel rispetto dell’ordine e delle norme.

Un auspicabile segnale di condanna del modo così meschino di intendere la società civile dovrebbe venire in primo luogo dalle scuole, dagli atenei e da tutte quelle associazioni che ripudiano la violenza come mezzo al servizio di rivendicazioni politiche. Solo dai contestatori pacifici può scaturire quella condanna culturale che giunga a una vera e propria discriminazione verso quelli che, dal G8 di Genova fino agli avvenimenti di questi giorni, hanno di fatto reso impossibile un regolare svolgimento delle manifestazioni pubbliche.

Tea Party Italia, per esempio, il movimento di cui sono dirigente e che è estraneo alle logiche dei partiti, ha ricevuto una serie di lettere minatorie a pochi giorni dall’evento dell’11 Dicembre previsto nella città di Messina, dove sarebbe dovuto intervenire Antonio Martino. Per il bene dei partecipanti e degli organizzatori siamo stati costretti a rimandare l’appuntamento e abbiamo valide motivazioni per credere che si tratti degli stessi agitatori che hanno messo a soqquadro Roma lo scorso 14 dicembre.

Questi soggetti vogliono semplicemente impedire il corso della dialettica democratica. La violenza un giorno potrebbe colpire un liceo, un’università o un gruppo di lavoratori. La violenza non ha colore né bandiera; ragion per cui non dovrebbero esservi esitazioni nel condannarla.