Non rimaniamo indifferenti al bisogno di aiuto dei dissidenti iraniani

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Non rimaniamo indifferenti al bisogno di aiuto dei dissidenti iraniani

31 Ottobre 2007

Nel giorno in cui persino la Francia, dopo anni e anni di politica di appeasement, ha capito che “è tempo di prendere rischi”, come ha detto il presidente Sarkozy, di fronte alla determinazione dell’Iran nel proseguire con la sua politica aggressiva, dobbiamo con grande serietà prendere in considerazione il grido di dolore di Akbar Atri.

Proprio per la sua valenza politica, oltre che per la profonda simpatia che ci ispira la sua causa, lo abbiamo scelto per la pagina di War. Aiutare i dissidenti e quindi, se non provocare, per lo meno spianare la strada al regime change a Teheran è la migliore di tutte le idee possibili. Migliore delle sanzioni, che giungeranno lentamente e con molte limitazioni, dal momento che un nuovo patto unisce l’Iran di Ahmadinejad alla Russia di Putin. Per quanto il capo del Cremlino si renda conto benissimo dei pericoli che l’Iran atomico comporterà anche per Mosca, la sua ambizione grande-russa è tale da suggerirgli un’asse strategico che certamente si farà sentire all’Onu. Aiutare i dissidenti è certo meglio dell’ipotesi dell’attacco alle strutture nucleari. Scontro che tuttavia sembra farsi avanti dal momento che ogni scontro armato oggi è da ritenersi migliore di uno scontro con Ahmadinejad domani nei panni di uno Stranamore atomico determinato a scatenare Gog e Magog per far venire su questa terra il Magdi, il Messia Sciita.

Akbar ci invita a non scambiare il silenzio iraniano, indotto dalla paura che suscita un regime che ha eseguito 100 condanne a morte senza processo in un anno, per sfiducia o distacco dal disperato bisogno di aiuto dei dissidenti. Egli invita anche mobilitarsi per raccogliere aiuto ovunque ci troviamo, e non solo negli Stati Uniti. Parlare dell’Iran, scriverne, aprire i media al dissenso che viene quasi sempre affogato sotto il clamore delle dichiarazioni di Ahmadinejad che catturano tutti i titoli, dare fiducia, finalmente, e di più, alle persone che combattono come hanno combattuto Vaclav Havel o il Mahatma Gamdhi o Nathan Sharansky è la strada per difendere noi stessi senza impugnare le armi, cercando di evitare che a questo si debba giungere per non rischiare la nostra stessa vita.

Ai democratici iraniani serve solo solidarietà

di Akbar Atri

Nel momento in cui scrivo, alcuni miei amici sono seduti
nelle celle della prigione di Evin, in Iran. Li stanno torturando, isolando e
gli vengono anche negate le cure mediche. A dispetto della loro sofferenza,
però, scrivono ancora e riescono a far circolare saggi sulla brutalità del
governo iraniano e sul come il movimento democratico possa resistere nonostante
la montante repressione. 

Qui in America, dove vivo dal 2005 come attivista in esilio,
è emersa una controversia riguardo la promessa da parte dell’amministrazione
Bush di procurare 75 milioni di dollari destinati a sostenere i diritti
democratici ed umanitari degli iraniani. I critici del finanziamento, tra i
quali ci sono alcuni iraniani-americani, sostengono che questi soldi
metterebbero in pericolo le vite degli attivisti e darebbero al regime di
Teheran un pretesto per usare la mano pesante contro di loro.

Questo dibattito, però, non è in voga soltanto tra gli
americani. Infatti, anche durante uno
dei periodi più repressivi, gli attivisti per la democrazia in Iran stanno
discutendo sull’eventualità di accettare o meno un supporto economico dall’estero.
Lo scorso mese, il mio amico e compagno attivista Akbar Ganji, che ha passato
mezzo anno nella prigione di Evin, ha voluto condannare