Non si arrestano i pogrom indù contro i cristiani
17 Ottobre 2008
Continua in India la campagna di massacri e violenze orchestrata dai gruppi nazionalisti indù contro la popolazione di fede cristiana. Lunedì scorso, in una località vicino a Bangalore (nello Stato del Karnataka), è stata infatti incendiata un’altra chiesa. L’ondata di attacchi è scattata il 23 agosto scorso, nello Stato orientale di Orissa, in seguito all’uccisione di Swami Laxanananda Saraswati, leader locale del Vishwa Hindu Parishad (Vhp), una organizzazione fondamentalista indù.
La furia omicida dei militanti indù, organizzati in vere e proprie unità paramilitari, si sono estese anche agli Stati del Chhattisghar, Madhya Pradesh, Karnataka e Maharashtra. Il bilancio, a oggi, è di 61 morti, 18 mila feriti, oltre 180 chiese depredate o distrutte, circa 4500 case di cristiani date alle fiamme e più di 50 mila profughi. Per correre ai ripari, il governo dello Stato di Orissa ha imposto il coprifuoco nella zona, ma questo è sistematicamente – e impunemente – violato dai radicali indù. La polizia locale, inoltre, afferma di aver già arrestato circa 1000 persone implicate nelle violenze contro i cristiani. L’immobilismo delle autorità del luogo suscitò le proteste della Chiesa indiana già nel dicembre scorso, quando orde di radicali indù – fomentati dallo stesso Laxanananda – scatenarono dei pogrom contro i cristiani.
Le campagne di odio contro i cristiani non sono una novità in India e affondano le loro radici nel complicato rapporto tra politica e nazionalismo locale. Una evidente contraddizione in un Paese dove libertà di religione e conversione sono garantiti costituzionalmente, e dove la società ha una lunga tradizione di pluralismo e tolleranza religiosa. I gruppi che si ispirano all’Hindutva, il nazionalismo estremista indù, accusano i cristiani di fare proselitismo, e per questo motivo si oppongono all’impegno sociale della Chiesa locale verso i tribali e gli intoccabili. Il loro scopo ultimo è quello di ‘bonificare’ l’India dalle minoranze etniche e religiose. In particolare, per i radicali indù, la predicazione dei cristiani metterebbe in pericolo il sistema delle caste (abolito formalmente, ma nei fatti ancora in piedi) e quindi il potere di quelle più importanti di mantenere adivasi e dalit in uno stato permanente di sottomissione economica e sociale.
Il Vhp, il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) e il Bajrang Dal (Bd), costituiscono la spina dorsale del Sangh Parivar, l’organizzazione ombrello dei gruppi nazionalisti indù. Il loro referente politico è il Bharatiya Janata Party, principale forza di opposizione a livello nazionale (già al governo dal 1998 al 2004), ma alla guida di un esecutivo di coalizione nell’Orissa (come anche negli altri Stati dove imperversano le violenze). L’inazione delle autorità nell’arrestare la carneficina nei diversi Stati coinvolti, secondo molti, è da collegare alle connivenze tra queste e i fondamentalisti indù. Serpeggia inoltre il sospetto che gli attacchi siano stati pianificati da mesi, nel quadro di una ‘strategia della tensione’ volta ad accrescere l’odio intercomunitario in vista delle elezioni generali della prossima primavera.
L’Orissa è il primo Stato dell’Unione Indiana dove è stata approvata una legge anticonversione (1967). La convivenza tra la comunità indù e quella cristiana in questo lembo del Paese non è mai stata semplice. Negli ultimi 15 anni, le conversioni dall’induismo al cristianesimo sono aumentate notevolmente. Nel distretto di Kandhmal, l’epicentro delle violenze, i cristiani rappresentano il 5% della popolazione. Più del doppio rispetto al dato nazionale (2,30%, con un 80% di indù e un 13% di musulmani), che è in declino rispetto a 30 anni fa (2,63%). L’aumento del loro numero, insieme al fatto che solitamente i convertiti al cristianesimo (grazie a programmi di educazione e lavoro gestiti dai missionari) raggiungono un tangibile miglioramento sociale ed economico, spiegano il risentimento dei gruppi radicali indù.
Il nazionalismo indù, negli ultimi 20 anni, ha lanciato una drammatica sfida alla natura secolare dello Stato indiano. Sempre lunedì, a Delhi, nel corso dell’assemblea del Consiglio nazionale per l’integrazione, Il premier indiano Manmohan Singh ha sottolineato la necessità di difendere con forza il tradizionale carattere laico, democratico, multietnico e multireligioso della società indiana.
Riguardo ai massacri della popolazione cristiana nell’Orissa e negli altri Stati dell’Unione, Singh ha espresso il timore che dietro a tutto ciò si celi un disegno preordinato attraverso il quale alcuni intendono minare l’eterogeneità culturale e religiosa dell’India. Secondo il premier indiano, la promozione di interessi settari finirà inevitabilmente per creare una profonda frattura tra le diverse comunità indiane, al punto da rappresentare una minaccia per la stabilità interna del Paese. Nella ‘più grande’ democrazia del mondo, infatti, si annidano spinte disgregatrici (nazionalismo indù, terrorismo islamista, separatismo etnico e guerriglia maoista-naxalita), che se non contrastate a dovere, rischiano di vanificare l’ascesa politica ed economica di Delhi sul proscenio internazionale.