“Non si possono chiedere poteri senza accettare alcuna responsabilità”

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“Non si possono chiedere poteri senza accettare alcuna responsabilità”

Il momento è arrivato. Con la bozza di riforma costituzionale promossa dal Guardasigilli Alfano l’esecutivo poggia la prima pietra per la costruzione del nuovo sistema giustizia. Separazione delle carriere, doppio Csm, responsabilità civile dei magistrati e valorizzazione del ruolo della polizia giudiziaria nelle indagini sono i nodi centrali di un progetto il cui obiettivo è il riequilibrio formale fra poteri dello Stato. Secondo il segretario del Pd Bersani le proposte del governo sono solo un “bricolage di leggi ad personam” che mettono in moto un treno senza sapere quale sarà la stazione d’arrivo. Secondo Jole Santelli, ex sottosegretario alla giustizia, deputata del Pdl e vicepresidente della Commissione Affari costituzionali di Montecitorio, l’obiettivo è di ben altro segno: “una riforma del genere può riguardare solo i cittadini. La Costituzione si scrive sempre per chi arriverà dopo”.

Onorevole Santelli, perché in Italia si sente l’esigenza di due distinti organi di governo della Magistratura?

Noi abbiamo un sistema di carriera unica dei magistrati che condividiamo con altri paesi europei che è stato formulato dalla Costituente nel 1948. Il modello che stiamo proponendo noi, simile a quello portoghese, distingue tra magistratura giudicante e magistrature requirente. Un sistema che garantisce un’effettiva ‘parità delle parti’. Se la carriera dei magistrati è determinata da un unico Csm si confondono due ruoli che invece dovrebbero essere ben distinti: da una parte chi accusa, dall’altra chi giudica. Ma c’è anche un altro motivo, ovvero la necessità di recuperare l’autonomia del giudice.

Si spieghi meglio.

Nel formulare la Costituzione si stabilì che l’attività del Pubblico ministero doveva avere la funzione di ‘cappello giuridico’ ai rapporti di polizia. A partire dagli anni ‘70 però, a causa delle gravi emergenze scaturite da casi di mafia e terrorismo, la figura del magistrato inquirente è stata potenziata. Così quest’organo ha iniziato ad occuparsi delle inchieste in modo sempre più invasivo, a discapito del ruolo della polizia giudiziaria. Non solo. Il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, è impostato prevalentemente sulla fase processuale, che è il cuore della materia giudiziaria. Di fatto però, l’indagine preliminare ha acquisito sempre maggior rilevanza, con il conseguente rischio dell’anticipo del giudizio processuale.

Da questo deriva il bisogno di stabilire la responsabilità civile del magistrato?

Esatto. I magistrati devono essere consapevoli di utilizzare un potere dello Stato che incide fortemente sulla libertà e sulla vita delle persone. Dunque qualsiasi tipo di superficialità o di eccessiva assunzione di rischio contrasta con una funzione equilibrata dell’attività giurisdizionale.

Da cosa deriva questo squilibrio?

Il nostro sistema prevede un accentuato potere discrezionale della magistratura. A questa discrezionalità, però, dovrebbe corrispondere in egual misura una responsabilità. Con il referendum sulla responsabilità civile dei giudici del 1987 si raggiunse uno dei momenti di scontro più aspri tra politica e magistratura, ma la norma che ne uscì risultò vuota, perché prevedeva un un’azione di rivalsa nei confronti del magistrato da parte dello Stato. Un intervento solo ‘eventuale’ che di fatto ha comportato molto spesso l’assenza di una verifica sull’attività del magistrato.

Si parla dell’istituzione di una ‘Corte di disciplina’. Quale dovrebbe essere la funzione di quest’organo?

Quella di contenere un’estrema forma di corporativismo. Nell’attuale Consiglio Superiore della Magistratura lo stesso plenum di togati si occupa sia della carriera che delle sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati. L’ipotesi è quella di estrapolare dal Csm una Corte che si occupi esclusivamente delle questioni disciplinari.

Nella bozza è prevista anche una modifica che garantisca maggiore autonomia alla polizia giudiziaria. Cosa vuol dire?

Prima della modifica del codice di procedura penale dell’89 la polizia giudiziaria aveva maggiore autonomia d’indagine e il pm rivestiva, per così dire, la prima verifica dei contenuti di un’indagine. Ora, invece, la polizia dipende direttamente dalle Procure, e quindi dalle direttive del pm. In questo modo il magistrato ha acquisito sempre maggiore discrezionalità politica sui fatti che investono la criminalità del Paese, senza però risponderne di fronte ai cittadini. Dunque, ristabilire la distinzione tra l’attività della polizia giudiziaria e quella dei pm significa far uscire il magistrato dal campo della politica per farlo tornare in quello giurisdizionale.

Cosa ha sollecitato il ritocco dell’articolo 112, quello sull’obbligatorietà dell’azione penale?

Da un lato c’era la necessità di mantenere l’obbligo di esercizio dell’azione penale, ma dall’altro anche quella di stabilire che i criteri di priorità dell’azione penale fossero affermati dal Parlamento. In questo caso il modello di riferimento è quello dell’ordinamento tedesco. Faccio un esempio concreto: mettiamo il caso in cui un Procuratore capo dia un input alla sua Procura affinché si occupi in via prioritaria dei furti negli appartamenti piuttosto che di altri casi. Non sarebbe una questione riguardante un interesse diretto dei cittadini? Quindi, una priorità come questa non dovrebbe essere stabilita dalla magistratura, bensì dalla politica.

Le riforme costituzionali richiedono tempi lunghi e condivisione, ma il centrosinistra è già sul piede di guerra.

Sono trent’anni che si parla della necessità di una riforma della giustizia. Ancora oggi c’è una parte della politica che frena il cambiamento per questioni di mera tattica o, forse, per paura della corporazione dei magistrati.