
Non si possono processare le opinioni dei parlamentari

15 Febbraio 2022
Una vicenda processuale che in questi giorni è tornata gli onori delle cronache segnala l’urgenza di porre rimedio ad alcune aporie del sistema normativo italiano.
Si tratta di un giudizio penale pendente dinnanzi al Tribunale di Modena nei confronti, tra gli altri, di Carlo Giovanardi, all’epoca dei fatti senatore della Repubblica: con diverse rubricazioni, egli è stato imputato di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi componenti, oltraggio a pubblico ufficiale e violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale perché, tra il 2013 e il 2014, svolse una intensa attività parlamentare ed extraparlamentare di critica nei confronti dell’allora vigente disciplina delle interdittive antimafia e della loro gestione da parte delle Prefetture.
È interessante segnalare in primo luogo che, proprio all’inizio di quest’anno, tale disciplina di prevenzione è stata riformata nel senso auspicato da Giovanardi: finalmente l’irrogazione delle misure in questione deve essere preceduta dal contraddittorio con la parte interessata.
Sta di fatto, però, che, nonostante apparisse chiaro dagli atti di sindacato ispettivo parlamentare e dalle cronache che fosse attività eminentemente politica con precipuo legame col territorio da lui rappresentato, nondimeno Carlo Giovanardi è stato tratto a giudizio: è lecito quindi prospettare il dubbio che una più attenta qualificazione dei fatti avrebbe impedito la stessa formulazione dell’imputazione.
Formulata dalla difesa l’eccezione di insindacabilità ex art. 68 Cost., il Tribunale, non condividendola, ha dovuto rimettere gli atti al Senato per le valutazioni di competenza, ai sensi dell’art. 3, co. 4, l. n. 140/2003, con conseguente sospensione del processo ai sensi del successivo co. 5.
Tale legge si fa carico, molto opportunamente, di precisare, sulla scorta anche della giurisprudenza costituzionale, che l’art. 68 Cost. si applica, oltre che all’attività esercitata dal parlamentare nell’ambito (fisico e soprattutto funzionale) della Camera di appartenenza, anche ad «ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento».
È diffusa l’inclinazione a qualificare questa norma in funzione appendicolare rispetto alla immunità per gli atti c.d. intra moenia: e qui si annida forse l’equivoco che ha condotto, in questo, come in altri casi, a ritenere che lo svolgimento del mandato politico al di fuori dell’assemblea meriti ridotta tutela e che l’attività del parlamentare sia politica (in senso proprio e tecnico, di rilevanza costituzionale) soltanto in quanto componente di un collegio deliberante.
Viceversa, in una corretta prospettiva di interpretazione sistematica della Carta fondamentale, appare chiaro che, spettando ad ogni singolo deputato e senatore la funzione di rappresentante della Nazione, da esercitare con libero mandato (non vincolante nei sensi del diritto civile e nondimeno mandato), essa consiste in primo, essenziale e direi indefettibile luogo proprio nel rapporto con quegli abitanti della Repubblica (sono i termini della Costituzione) in proporzione ai quali devono formarsi e configurarsi le circoscrizioni elettorali: il rappresentante ha il dovere di censire le questioni che ivi più acutamente si agitano, al fine di poterle tradurre, mediante le opportune iniziative in sede parlamentare, in atti di indirizzo, di controllo, di normazione ecc. In ciò consiste il nucleo essenziale di quella consonanza tra collettività e apparato di governo che integra il principio di sovranità popolare.
Se si vuole, potrebbe dirsi che l’attività extra moenia (a cominciare da quella di promozione programmatica elettorale) precede, prima, e, poi, costantemente segue e accompagna quella esercitata al Senato e alla Camera.
Ciò posto, la tutela delle prerogative parlamentari si “smaglia” a causa di una imprevisione della l. n. 140/2003: essa prevede che, investita della questione relativa alla insindacabilità, la Camera di appartenenza si pronunci entro 90 giorni dalla ricezione degli atti, prorogabili di altri 30 giorni.
Il termine, stando alla giurisprudenza della Corte di cassazione, è, come usa dirsi ordinatorio: quanto dire che la pronuncia parlamentare può utilmente essere emessa successivamente; nondimeno la sospensione del processo non può durare oltre i complessivi 120 giorni.
Potrebbe dunque accadere, proprio nel caso di Carlo Giovanardi, il cui giudizio è stato ormai ripreso, che, intervenuta la deliberazione parlamentare di insindacabilità (proposta all’Assemblea dalla competente Giunta), l’ex Senatore debba essere prosciolto, dopo esser già stato sottoposto a quella che un antico scrittore definiva la pena del giudizio (con annessa mortificazione mediatica del suo mandato).
Tale irragionevole sistema non giova né alle Camere, né all’ordine giudiziario, né, tantomeno, al singolo rappresentante della Nazione, il quale si trova in effetti sprovvisto di mezzi perché la pronuncia relativa al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 68 Cost. sia adottata e comunicata in tempo utile per evitare di doversi trovare a rispondere, ad esempio in fase istruttoria, di fatti che ritenga schietto esercizio delle proprie funzioni.
Il rimedio potrebbe trovarsi nella introduzione di una disposizione che equipari la mancata pronuncia parlamentare entro il termine previsto ad un “verdetto” favorevole (per il favor libertatis e, in pari tempo, per la dovuta salvaguardia del libero mandato parlamentare), che, a ben vedere, gioverebbe anche a scongiurare un uso strumentale, da parte delle maggioranze politiche, dello strumento in parola, oggi possibile proprio per gli effetti del “disallineamento” temporale tra deliberazione assembleare e imprescindibili esigenze di certezza e celerità dei tempi della giurisdizione.
*Professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento. Docente Luiss – Guido Carli