Non si può capire l’opera di Holderlin solo leggendo la biografia del poeta
12 Giugno 2009
di Vito Punzi
Prigionieri di un facile meccanicismo, troppo spesso, ancor oggi, s’aspira a voler comprendere le ragioni più vere di un’opera, letteraria e artistica in generale, sia essa quella singola o quella complessa di un’intera esistenza, in relazione con le vicende biografiche dell’autore. A Wilhelm Waiblinger, l’aspirante poeta morto nel 1830 appena ventiseienne, dobbiamo il contributo decisivo alla definizione di un’unità inscindibile di “vita, poesia e follia” nella persona di Friedrich Hölderlin, uno dei maggiori talenti poetici di lingua tedesca di tutti i tempi.
Redatto a Roma tra il 1827 e il 1828 ma pubblicato solo postumo, nel 1831, il breve eppure intenso scritto del giovane in cerca di gloria dedicato al poeta svevo viene ora riproposto nella sua versione critica più recente (Wilhelm Waiblinger, Friedrich Hölderlin. Vita, poesia e follia, trad. di Elena Polledri, postfazione di Luigi Reitani, Adelphi, Milano 2009, pp. 99, € 10,00). E ci sarebbe di che allietarsi, nel caso la si volesse intendere come una ghiotta occasione per rilanciare la lettura della complessa e quasi sempre oscura opera di Hölderlin. In realtà si tratta di una di quelle biografie romanzate che per propria natura poco lasciano intendere degli eventi realmente accaduti nella vita dell’autore, di ciò che ne rende unica ed irripetibile l’opera e tanto meno delle sue segrete motivazioni.
Lo stesso Reitani, che è stato anche curatore del “Meridiano” hölderliniano (Mondadori 2001), ammette come “l’attendibilità e la veridicità” degli dati biografici presentati da Waiblinger siano “certamente discutibili”, tanto che nella sua postfazione si è sentito in dovere di correggere le non poche imprecisioni contenute nel testo. Curioso che dopo averne rimarcato le pesanti lacune, Reitani sostenga essere lo schizzo di Waibilinger di “valore eccezionale anche ai fini puramente biografici”, soprattutto perché rappresenterebbe “con mirabile drammaticità espressiva l’alterità di Hölderlin”.
C’è qualcosa che non quadra: se si riconosce come “dubbia e lacunosa” (sempre Reitani) la parte biografica, perché mai dovrebbe risultare credibile la descrizione delle condizioni del poeta svevo nella solitudine della “torre” di Tubinga? Tanto più che le considerazioni dello stesso Waiblinger sulla presunta alterità hölderliniana rivelano una personalità lontana dall’intendere la natura del “genio” poetico e dai giudizi spesso piuttosto banali.
Come si può sopportare l’idea che, nel caso il destino avesse voluto concedergli una cattedra universitaria e una donna in moglie, Hölderlin “si sarebbe rimesso, avrebbe recuperato le forze” e “la sua tensione spirituale si sarebbe attenuata”. Incapace di cogliere la complessità di ciò che allora, semplificando, si diceva essere “follia”, Waiblinger non riesce a darsi ragione della drammatica energia creativa del poeta, arrivando più volte a stupirsi per quel frequente “profluvio di parole terribilmente confuse e insensate”, frutto, a suo dire, del progressivo “ottenebramento”.
Povero Waiblinger. Arriva perfino a suggerire ai curatori dell’opera dello svevo l’inserimento di note, tanto per far intendere che certi versi possono essere intesi solo in rapporto alla sua follia… A questi che sono i limiti “strutturali” dello scritto se ne aggiunge un ulteriore, legato alla traduzione della Polledri, laddove rende il frequente e questa volta adeguato richiamo di Waiblinger al das Innere (quel ’”ciò che è interiore” che in Rilke diventerà Weltinnenraum, “spazio interiore del mondo”) con un depotenziato e neutralizzato “animo”.
Meglio rileggersi le mirabili pagine hölderliniane di Romano Guardini (Hölderlin e il paesaggio, Morcelliana 2006), laddove ammonisce che nessuno sia in grado dire che cosa in verità si sia verificato in quella lunga “notte”, la sua follia, durata trentasei anni. Tanto più che, suggerisce il grande teologo, in quei “frammenti dell’epoca tarda, spesso così scompigliati” ci si deve immergere, “bisogna andar dietro alle frasi, alle immagini, alle parole”. Solo così “l’unità si forma”, sostiene Guardini, lasciando emergere ancora una volta tutta la potenza del “vedere” di Hölderlin, tutta la sua capacità di “superare gli abissi”.