Non solo i privilegi della “casta”, anche le pensioni pesano sull’economia

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Non solo i privilegi della “casta”, anche le pensioni pesano sull’economia

19 Luglio 2011

Adesso che la manovra economica è stata approvata in tempi rapidi, mostrando come la classe politica, al di là delle polemiche, non ha perso completamente la percezione dell’interesse nazionale, è forse opportuno svolgere qualche considerazione sulla relazione che esiste tra élite politica, società e bilancio dello stato.

Sempre più spesso si sente parlare della distanza eccessiva che ci sarebbe tra la classe politica e i comuni cittadini. Un problema acuito dalla lunga crisi economica che stiamo vivendo, durante la quale si sono accresciuti i disagi e le difficoltà di larghi strati della popolazione. In questa fase, le denunce dei privilegi della casta dei politici si sono moltiplicate, e non si può dire che siano fuori luogo. Peraltro è assai positivo che ai fortunati libri contro quella che si vuole sia la "casta" per antonomasia siano seguiti altri volumi dedicati ad altre caste altrettanto potenti (sindacalisti, magistrati) ma che sono decisamente irresponsabili, perché non debbono sottoporsi alla prova del voto popolare.

Il bello è che in teoria il problema sarebbe di facile soluzione. Basterebbe ridurre in modo congruo il numero dei parlamentari − anche, e soprattutto, quello dei consiglieri regionali, provinciali e giù per li rami fino ad arrivare alla pletora di mini greppie come quelle dei municipalità o delle comunità montane − per soddisfare, ceteris paribus, le richieste dell’opinione. In sostanza, in questo caso un bel taglio lineare potrebbe risultare decisivo. Purtroppo la realizzabilità di una simile ipotesi è, al momento, praticamente nulla. Impensabile che i titolari di un beneficio decidano di annullarselo o ridurselo, soprattutto in una situazione nella quale le capacità decisionali del sistema politico sono molto basse.

Tuttavia il bagno di realtà non può essere un semplice argomento polemico da rivolgere alla casta (o alla caste), ma conviene estenderlo a tutti. Anche al cittadino comune. Cercherò di spiegarmi con un esempio. In questi giorni si è saputo che l’equiparazione dell’età pensionabile fra uomini e donne avverrà nel 2032; la misura, insomma, non è − per usare un eufemismo − dietro l’angolo. La timidezza con cui i governi intervengono su questo aspetto delle sperequazioni previdenziali è presto detta: il timore dell’impopolarità. Da qui la scelta di procrastinare l’effetto di tali misure perequative diluendole nel tempo e di fatto rimandandole a un futuro assai lontano. Insomma se l’equiparazione dell’età pensionabile non si fa prima − cosa che potrebbe essere di notevole sollievo per le finanze pubbliche e che segnerebbe un’autentica parità fra i sessi − ciò non dipende dalla casta ma dalla spinta popolare. Tuttavia non si può dire che si tratti di una spinta sana o virtuosa. Soprattutto non è una spinta che tiene conto della realtà o cerca di uniformarsi ad essa.

Per intenderlo basta fare un raffronto con la situazione della previdenza privata. Se si vuole stipulare un’assicurazione sulla vita da tradurre in una rendita − che funzioni, in sostanza, come una sorta di integrazione previdenziale − le condizioni possono variare a seconda dei fattori messi in campo (entità dei versamenti, loro durata), ma un dato è certo in partenza: a parità di versamenti la rendita ottenibile da una donna sarà sempre inferiore a quella che può avere un uomo. Questo perché l’aspettativa di vita femminile è superiore di parecchi anni a quella maschile. Una differenza che il calcolo attuariale registra − è il caso di dire − senza sconti.

In conclusione, ben vengano le denunce dei privilegi della casta, la richiesta rivolta alle classe politica di una maggiore aderenza alla realtà. Ma non dimentichiamo che l’invito ad aderire alla realtà va rivolto anche al comune cittadino, cominciando, magari, proprio da un sistema pensionistico che pesa come una palla al piede sulla nostra economia. Prendere atto dalla realtà sarebbe anche un modo per non stupirsi quando, in mancanza di riforme strutturali (in grado cioè d’incidere durevolmente sulle spese statali) saremo costretti, magari tra poco tempo, a una nuova manovra lacrime e sangue.