“Non sono depresso, sono malinconico”. Una ricerca inglese fa a pezzi il mito del Prozac
04 Dicembre 2007
di Daniela Coli
L’anno
scorso in Inghilterra i medici hanno scritto 31 milioni di ricette per
antidepressivi, un numero mai raggiunto prima, tanto da far parlare del Regno
Unito come della patria del Prozac. Il volume appena pubblicato da Oxford
University Press da due famosi sociologi, Allan Horwitz e Jerome Wakefield e da
Robert Spitzer, professore di psichiatria del New York State Psychiatric
Institute, definito dal “New Yorker” come uno dei più influenti psichiatri del
XX secolo, provocherà forse una piccola
rivoluzione culturale. Già il titolo del loro
libro è significativo: The Loss of Sadness: How Psychiatry
Transformed Normal Sorrow into Depressive
Disorder: La perdita della tristezza: come la psichiatria ha
trasformato il normale dolore in depressione. Cosa hanno scoperto Horwitz,
Wakefield e Spitzer di tanto importante da far parlare di loro tutti giornali inglesi e americani? Qualcosa noto
da secoli come melanconia, “il piacere di essere tristi”, lo definiva Victor
Hugo. Horwitz e Wakefield non negano
l’esistenza di disordini depressivi per i quali sono necessarie le cure della
psichiatria e farmaci, ma dichiarano che vi sono stati eccessi di medicalizzazione nel giudicare
abnormi comportamenti umani come la
normale tristezza. Il libro dimostra che la medicina non tiene più conto del
contesto nel quale una persona diventa triste. La depressione viene definita tale solo se a una normale
malinconia si aggiungono sintomi come l’insonnia, la perdita dell’appetito, un
senso di affaticamento. I due studiosi sostengono che se questi sintomi si
riscontrano in persone che sono giù per motivi validi, come la fine di una
relazione o la perdita del lavoro, non possono essere classificati come
malattia. Diversamente, se questi segni di malessere si trovano in persone tristi senza
l’esistenza di motivi reali per la loro tristezza, devono andare dallo
psichiatra.
Segna
anche una svolta epocale che un importante psichiatra come Robert Spitzer
sostenga appassionatamente le teorie di Horwitz e Wakefield, ammettendo
di avere sbagliato in passato nel non avere tenuto conto del contesto in cui si
manifesta la cosiddetta depressione.
Spitzer parla del fenomeno avvenuto nel XX secolo della perdita della tristezza, uno stato
psicologico presente invece in tutte le epoche del passato e in tutte le
culture. Spitzer sottolinea come i bambini nascano con la capacità di piangere
e che perfino gli scimpanzé sono tristi quando la vita non gira nel verso
giusto e dichiara che il dolore fa parte dell’esperienza emotiva umana. Dylan
Evans, uno psichiatra evoluzionista, autore di Emotion: The Science of
Sentiment, afferma che la capacità di sentirsi tristi, come di sentirsi
felici, è una proprietà degli esseri
umani, un elemento fondamentale del patrimonio emotivo umano, tanto che le
persone nate cieche sorridono o hanno smorfie di dolore uguali a quelle che
hanno sempre visto. Gli psichiatri del
‘900 avrebbero dunque sbagliato enormemente classificando come malattia la
normale sofferenza e continuare a prescrivere Prozac o antidepressivi può
comportare seri guai, perché le persone perdono inibizioni e cautele, diventano
insensibili al dolore e possono commettere audacie con gravi danni a se stessi
e agli altri.
Randall Nesse, uno psichiatra dell’università del Michigan, ha
avanzato l’ipotesi qualche tempo fa che sia i boom economici sia le bancarotte
stanno diventando sempre più esagerati a causa di investitori e azionisti sotto
l’effetto del Prozac, che toglierebbe loro ogni senso di cautela. Quando il
gioco diventa pesante, per effetto del Prozac non avvertono stress e le
bancarotte diventano spettacolari. Psichiatri e sociologi ora si chiedono come
sia potuto accadere di non capire che alcune esperienze umane come provare
dolore o tristezza sono addirittura salutari. Insomma, si è di nuovo scoperto
che sentirsi tristi per la fine di un amore o avere una giornata storta in cui
non si ha voglia di uscire non è una malattia, ma – si chiedono psichiatri e
sociologi – le industrie farmaceutiche accetteranno questa novità?